IL RICORDO

Elogio dei due punti: in memoria di Salvatore Mannuzzu

di Stefano Salis

4' di lettura

C'è un segno distintivo della scrittura di Salvatore Mannuzzu, il grande scrittore (sardo), morto ieri all'età di 89 anni: sono i due punti.

Ciascun segno di interpunzione, per la verità, meritava, in Mannuzzu, un'attenzione supplementare: segno, inequivocabile, della estrema precisione di scelta che egli aveva compiuto, per confezionare, limando fino all'ultimo, postremo segno, ogni elemento che avesse osato “sporcare” il bianco della pagina; della sua pagina: uno “scandalo”, quello della scrittura, che metteva l'urgenza del dire – purtuttavia - al primo posto, rispetto alla virtù del tacere e del silenzio, forse la sua cifra più alta: una discrezione incarnata fino a farne essenza di vita.

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E perciò metto la parola grande, di nuovo, in corsivo: perché ne risalti subito la pienezza, la differenza nel contesto, e la giustificazione di un termine spesso abusato nella sbrodolante produzione critica o, peggio, giornalistica: enfasi inutile e malriposta in un'epoca che di grandezza vera ne contiene sempre meno; al contrario nel suo caso, nel brusio generale, essa deve essere distinta, poiché non si tema e non ci si confonda: “grande”, Mannuzzu, lo è stato in molti sensi.

E, ancora: tra parentesi sia messa la qualificazione geografica, come forse l'aveva messa lui stesso.

Era nato in Toscana, vero, per accidenti che nelle vite capitano; ma era sardo, fino al midollo, ed in assenza ed in essenza, senza però farlo trasparire, nel nitore e nel lutto delle radici. Virtù di una dissimulazione onesta e perciò stesso rarissima. Lo era, perché sassarese – e la specifica non è indenne da conseguenze se si pensa cosa abbia significato, nella storia italiana, non sarda, essere sassarese rispetto a essere nuorese o cagliaritano – intriso di moralità, di una moralità che riluceva nella sua scrittura levigata fino alla purezza ultima possibile, trasferendosi talora da personaggi ad autore sempre con una attenzione alle ragioni della letteratura (finzione ma vita) e a quelle delle vicende biografiche.

Magistrato, politico, o meglio, deputato, scrittore. Di queste tre anime, certamente, ricorderemo l'ultima. Non che le altre siano state meno importanti, o vissute con impegno più blando: certo, però, che Mannuzzu aveva sublimato nell'arte della scrittura la sua essenza più vera. Ci era riuscito a prezzo di una “solitudine rumorosa”, appartato e schivo, cifra esatta della sua prosa come della sua pubblica presenza.

Aveva esordito sotto falso nome, Giuseppe Zuri, per un motivo squisitamente letterario: aveva ricordato in una intervista che non voleva essere criticato nelle sue sentenze poiché autore di brutti racconti. Aveva, cioè, preoccupazioni di stile, che non era forma, ma sostanza, e in quel Dodge a fari spenti (1962) c'era già un'immagine, nel titolo, di una profetica visione della sua attività. Ma, ovviamente, il suo capolavoro resta Procedura (1988, Einaudi, come poi praticamente tutto il resto della sua produzione) consegnato alle sapienti mani di Natalia Ginzburg e denso di una prosa ipnotica e avvolgente. Un giallo sotto mentite spoglie: in realtà una ricerca metafisica (ben sottolineate dalla potente immagine magrittiana della copertina della prima edizione), un attorcigliamento intorno all'impossibilità della verità, alla soluzione nitida. Un libro che lasciava dubbi e inquietudini, secondo un preciso volere dell'autore, che non si è mai accontentato di banali disvelamenti definitivi.

Ecco, i due punti, allora. Testimoni grafici di questo suo rovello di scrittura. Frasi che non temevano percorsi labirintici: i due punti erano spesso introduzioni ad altri periodi iniziati con un altro segno identico di interpunzione: una catena di complessità e di subordini, un cesellare il pensiero che non aveva fine ma non perdeva lucidità.

Aveva uno stile suo, Mannuzzu, inconfondibile. Cosciente, persino troppo, del fare letterario, non prendeva scorciatoie, non concedeva al lettore la comodità della consolazione (come direbbe un suo strano sodale come Goffredo Fofi, con il quale cofirmò un libro, Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio che conteneva un refuso – e sulla virgola – nel frontespizio: una situazione che chissà come lo aveva trafitto), inondandolo delle sue ossessioni, schiacciandolo con il peso della forza della scomoda, scomodissima, verità.

Ce ne sono stati pochi altri, come Mannuzzu. Aveva un'intelligenza fine e la esercitava, credo, talora suo malgrado. Forse aveva una potente ancora di salvezza – dalla depressione, dal male del mondo, dal dolore della cognizione – nella fede. Con lo stesso titolo di “Procedura” aveva tenuto una bellissima rubrica su “Avvenire”. Ogni giorno un tentativo di riscatto e ripresa, da “cristiano senza qualità”, qualche riflessione per rimettere ordine. La giustizia, la fede, la letteratura: fardelli troppo grossi per confrontarsi, per chiunque. Mannuzzu non li aveva temuti: se ne era fatto carico con la sola forza del suo corpo esile, quel suo volto fragile da tartaruga, con la sola arma delle parole, della sensibilità.

In una intervista a Costantino Cossu, aveva detto: “La letteratura è la presa d'atto, in modi specifici, del nostro comune stato di precarietà e incompletezza. In quei modi specifici, quindi è anche una sorta di preghiera”. Amen, ci viene da aggiungere. Et nunc dimittis, Mannuzzu. Sapremo rileggerti. Sperando di tenere accesa quella qualità che ci hai insegnato quanto possa essere difficile da sopportare

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