la sentenza della cassazione

Crack Cirio, quattro anni a Geronzi. Nuovo processo per Cragnotti

(ANSA)

4' di lettura

Nuovo processo per l’ex patron della Cirio Sergio Cragnotti: la Cassazione ha infatti annullato con rinvio la condanna per il crac della società in relazione al capo d'accusa più grave (la vicenda “Bombril”) per il quale aveva avuto una pena di sette anni di reclusione, diventati otto anni e otto mesi per gli altri reati contestati. Per Cragnotti si tratta di «un risultato straordinario», ha detto il difensore Massimo Krogh. Sempre per il crac Cirio, la Corte di Cassazione ha confermato in sentenza definitiva la condanna a quattro anni di reclusione per il banchiere Cesare Geronzi. Tre anni sono però coperti da indulto.

La Cassazione ha confermato quasi totalmente il verdetto del 10 aprile 2015 dalla Corte d'Appello di Roma per il crack Cirio. Solo Sergio Cragnotti ha ottenuto «l'annullamento con rinvio alla Corte d'Appello di Roma per nuovo esame del capo I lettera «È relativo alla vicenda Bombril per la quale aveva riportato 7 anni di reclusione divenuti poi 8 anni e 8 mesi con gli altri reati». Definitiva invece la condanna a 4 anni di reclusione per l'ex banchiere Cesare Geronzi, per lui 3 anni sono coperti dall'indulto. Definitive inoltre le condanne per il figlio di Cragnotti, Andrea, che aveva 2 anni e 4 mesi di reclusione coperti da indulto e confermata la prescrizione per bancarotta preferenziale per gli altri due figli di Cragnotti Elisabetta e Massimo che in appello avevano ottenuto l'assoluzione per le altre imputazioni.

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Il crack della Cirio fu a inizio millennio un grande caso italiano di risparmio tradito, l’anno dopo il default dell’Argentina e l’anno prima del crack Parmalat

«È una sentenza molto equilibrata ed è il giorno della rivincita morale e materiale per centinaia di migliaia di risparmiatori traditi che hanno perso tutto nel crac Cirio e che oggi ricevono giustizia dallo Stato», sottolinea l'avvocato Claudio Coratella che rappresenta centinaia di piccoli risparmiatori che sono arrivati fino in Cassazione rifiutando la strada delle transazioni.

Il crac Cirio fu la madre, in Italia, del risparmio tradito. Colpì circa 35mila risparmiatori, che videro andare in fumo oltre un miliardo di euro. Il sostituto procuratore generale della Cassazione, Nando Iacoviello, aveva chiesto la riduzione delle pene per gli imputati. A partire dall’ex patron del gruppo alimentare e della Lazio, Sergio Cragnotti, condannato in appello a otto anni e otto mesi. Per arrivare all’allora presidente della Banca di Roma, Cesare Geronzi, condannato a quattro anni.

Il crack della Cirio fu a inizio millennio un grande caso italiano di risparmio tradito, l’anno dopo il default dell’Argentina e l’anno prima del crack Parmalat. Il gruppo aveva sul mercato sette prestiti obbligazionari, emessi da varie società del gruppo senza rating e con rendimenti troppo bassi rispetto al rischio effettivo, venduti in grande prevalenza a piccoli risparmiatori. Il crack fece partire innumerevoli inchieste penali, anche sulla vendita di obbligazioni al pubblico. Ma gran parte di quelle inchieste, a partire da quella della Procura di Monza che aprì la strada al filone, è finita con l’archiviazione degli indagati. È invece rimasto in piedi, fino alla Cassazione, l’iter processuale relativo al crack della società.

La storia del crack
Sono almeno 35mila, secondo le associazioni dei consumatori, i risparmiatori che sono rimasti coinvolti nel crac Cirio, l'azienda guidata da Sergio Cragnotti finita in default nel 2002 per il mancato pagamento delle cedole sulle obbligazioni da 1,2 miliardi di euro e poi dichiarata insolvente nel 2003.
Il gruppo Cirio, secondo quanto viene riportato nella relazione dei commissari giudiziali, ha alla fine del 1999 - dopo una forsennata campagna di acquisizioni (Del Monte, Bombril e la società sportiva Lazio) costata oltre 640 milioni - un debito superiore al miliardo di euro, di cui l'85% verso le banche. Una somma pari così al fatturato e a circa due volte il patrimonio netto.

L’emissione di bond in Lussemburgo
A questo punto il gruppo decide di avviare una serie di emissioni obbligazionarie in Lussemburgo (non dotate quindi di rating) e teoricamente destinate ai soli investitori istituzionali (”ma successivamente acquistabili e acquistati da chiunque”) che tra il 2000-2002 ammontano a 1,25 miliardi di euro. In questo modo l'indebitamento rimane stabile ma il debito delle banche passa dagli oltre 870 milioni di fine 1999 ai 335 milioni del 2002 e si sposta così verso gli obbligazionisti (850 milioni di euro. I principali istituti coinvolti nelle emissioni sono Abaxbank-Credem, Ubm-Unicredit, Banca Akros e Capitalia.
Già nel 2001, tuttavia, scrivevano i commissari, le attività operative del gruppo non riuscivano a creare cash flow sufficiente alla copertura degli interessi relativi alle obbligazioni emesse. Per cui si doveva ricorrere a nuovo debito per coprire la spesa in conto interessi, “secondo una delle più classiche formule di avvitamento finanziario delle imprese”.

La prima insolvenza
L'8 novembre 2002 arriva l'insolvenza del bond da 150 milioni cui segue, a cascata ('cross default') quello delle altre sei emissioni delle varie società del gruppo. Un tentativo di salvataggio predisposto dagli advisor Livolsi e Rotschild viene bocciato dall'assemblea degli obbligazionisti nel luglio 2003 e a settembre viene decisa l'applicazione dell'amministrazione straordinaria utilizzando la
Prodi-bis.

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