re salman a Mosca

Putin nuovo pivot della geopolitica mediorientale

di Alberto Negri

(EPA)

3' di lettura

La guerra di Siria, sul versante della geopolitica, forgia nuove alleanze. Chi ha perso la partita contro Bashar Assad, la Turchia e l’Arabia Saudita, sta già guardando oltre: questo è il senso della visita del monarca saudita Salman da Putin e di quella di Erdogan a Teheran da Hassan Rohani. In gioco tra Russia e Arabia Saudita ci sono gas e petrolio (la stabilizzazione dei prezzi con l’accordo tra Riad e Mosca), la cooperazione economica, in vista anche della mega privatizzazione dell’Aramco nel 2018, ma anche il tentativo da parte di Riad di trovare nuovi partner oltre agli americani.

La prova è che re Salman a Mosca si è rivolto esplicitamente a Putin per frenare “le interferenze” dell’Iran, il vero vincitore della guerra al Califfato insieme a Putin, che ha mantenuto e rafforzato l’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah, esteso dal cuore della Mesopotamia al Mediterraneo.

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Lo stesso discorso dei sauditi vale per Erdogan che ha visto infrangersi i suoi ambiziosi piani di diventare il leader del mondo sunnita. Non solo non è riuscito ad abbattere Assad ma si è trovato in rotta di collisione con Mosca e Teheran, il pericolo del terrorismo jihadista in casa, insieme a milioni di profughi, mentre i curdi iracheni di Massud Barzani proclamavano l’indipendenza con un referendum.

Putin e gli ayatollah da avversari sul fronte siriano sono così diventati il puntello della sua fallimentare politica estera che ha messo a rischio le stesse frontiere turche. Tanto è vero che Erdogan ha chiesto a Iran e Iraq di unirsi alla Turchia per chiudere i rubinetti delle esportazioni petrolifere dei curdi di Erbil.

Erdogan, con la pessima collaborazione di alcune potenze occidentali e arabe, in questi anni è riuscito nel capolavoro strategico di portare la Turchia fuori dall’Europa e di farla rientrare in Medio Oriente dove l’aveva tirata fuori Ataturk.

Il vero problema mediorientale oggi non è più Assad ma Erdogan - del quale per altro russi e iraniani si fidano assai poco visti i precedenti - che è perennemente in frizione con gli alleati storici della Nato e gli europei oscillando come un pendolo tra Oriente e Occidente. L’altro nodo è la tenuta della monarchia saudita, impantanata nella guerra in Yemen, in rotta di collisione con una parte del mondo sunnita (Qatar e Turchia), con l’Iran sciita e alle prese con un primato nel Golfo che appare sempre più opaco. I sauditi devono rifarsi un’immagine internazionale compromessa dal sostegno di Riad ai movimenti radicali che hanno destabilizzato il Medio Oriente. È un’operazione complicata perché si incrocia con i progetti di riforma del regno mal digeriti dal clero wahabita, pilastro della legittimità religiosa dei custodi di Mecca e Medina.

Putin è diventato così un interlocutore ineludibile, una sorta di pivot del Medio Oriente, ascoltato da tutti, da Israele agli alleati iraniani, dagli ex nemici turchi ai sauditi. E questo accade mentre il presidente americano Donald Trump, seguendo i suoi impulsi irrazionali, vorrebbe stracciare l’accordo sul nucleare tra Iran e 5+1 del luglio 2015. Il ministro della Difesa, il generale James Mattis, sostenuto dal segretario Stato Rex Tillerson, frena e si oppone: Trump ha tempo fino al 15 ottobre per decidere se fare o meno un altro regalo ai suoi concorrenti.

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