petrolio

Lo shale oil? Non è forte come sembra (e qualche fondo inizia a vendere)

di Sissi Bellomo

(Afp)

4' di lettura

La produzione di petrolio degli Stati Uniti forse non sta correndo come sembra. Anzi, lo shale oil potrebbe essere in difficoltà, persino nel mirabolante bacino di Permian, origine di oltre un quarto del greggio «made in Usa».

I dubbi circolano già da qualche mese negli ambienti finanziari, tra analisti e gestori di hedge funds. Ma nei giorni scorsi ad accendere i riflettori sulla questione è intervenuto Harold Hamm, il re dello shale oil americano, fondatore e ceo di Continental Resources , nonché amico e consulente di Donald Trump: le cifre del Governo sono «sbagliate di grosso», ha denunciato in un’intervista a Fox Business. «L’Eia ha sovrastimato del 100% la produzione Usa di quest’anno».

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Hamm non è l’unico a storcere il naso di fronte ai numeri dell’Energy Information Administration (Eia), che mese dopo mese sta correggendo – sempre in forte ribasso – le stime settimanali sulle estrazioni petrolifere, ma nonostante tutto conserva previsionoi super-ottimiste. Le attese sulla produzione Usa, tuttora ferme a 9,3 milioni di barili al giorno per il 2017 e 9,8 mbg per il 2018 , secondo Hamm sono un’«esagerazione», che distorce gli scenari di mercato e frena la risalita dei prezzi del barile.

La discrepanza tra le cifre settimanali dell’Eia (che sono soltanto stime grossolane) e quelle mensili, che però arrivano con un ritardo di due mesi, in effetti balza all’occhio. Ieri è successo di nuovo: i tecnici governativi hanno indicato gli Usa hanno prodotto 9,238 mbg in luglio, ossia 178.500 bg in meno rispetto a quanto sembrasse dai dati “a caldo”.

La correzione per giugno era stata ancora più macroscopica: l’output era stato in realtà di 9,097 mbg, circa 220mila bg in meno rispetto a quanto si pensasse e addirittura in flessione rispetto al mese precedente (-73.000 bg). Anche per i mesi di aprile e maggio l’Eia aveva sovrastimato la produzione di circa 200mila bg.

Non si tratta di errori da matita rossa, è chiaro, ma solo di errori statistici legati alla metodologia. Comunque sia, non sono revisioni trascurabili: 200mila bg equivalgono a metà del taglio di produzione dell’Arabia Saudita. E benché tutti sappiano che i dati settimanali Eia sono inaffidabili, il mercato ne viene influenzato:  ancora oggi è opinione diffusa che il boom della produzione Usa rischi di deragliare gli sforzi dell’Opec.

Invece la sua crescita ha frenato parecchio e – al di là della retorica sulla resilienza dello shale – ci sono buoni motivi per dubitare anche delle future prospettive di sviluppo.

Sembra impossibile che gli Usa possano arrivare davvero a 9,3 mbg quest’anno e 9,8 mbg il prossimo, specie dopo l’uragano Harvey, che ha costretto a sospendere le operazioni nel Golfo del Messico e nella shale play di Eagle Ford, in Texas. Il numero delle trivelle è in calo da due mesi (anche se la settimana scorsa, col Wti oltre 50 $, ne sono state riattivate sei).

Inoltre i costi stanno risalendo in fretta e in molte aree si segnalano carenze di personale specializzato. Ma non è tutto. Lo shale oil avrebbe anche problemi molto più seri.

Hamm (ovviamente, dato il suo ruolo) attribuisce la frenata della produzione solo al buon senso dei frackers, che starebbero imparando a controllare l’esuberanza per non compromettere i prezzi del petrolio. Ma proprio quell’esuberanza – che ha portato ad adottare tecniche di estrazione sempre più aggressive negli anni della crisi – potrebbe aver danneggiato in modo irreversibile le delicate formazioni geologiche da cui sgorga lo shale oil.

Uno studio appena pubblicato da Wood Mackenzie torna ad alimentare timori che erano già emersi nel periodo dei bilanci trimestrali del settore. La società di consulenza punta il dito contro le tecniche estrattive “estreme”, che avrebbero fatto crollare la pressione nei pozzi, accelerando il tasso di declino della produzione (declino che peraltro è certificato anche dall’Eia, con un calo di 350mila bg dai pozzi legacy).

La conclusione di Wood Mackenzie è che dopo l’eccezionale sviluppo degli ultimi anni il Bacino di Permian non riuscirà a raddoppiare l’output a 5 mbg entro il 2025, come prevede il Governo Usa, ma raggiungerà un picco di 3,5 mbg nel 2021. «Stiamo trivellando così tanti pozzi e così vicini – commenta Robert Clarke, direttore della ricerca – Possiamo davvero pensare che cinquemila pozzi rendano come cinque?»,

Non tutti sono pessimisti. Un’altra prestigiosa società, Ihs Markit, ha pubblicato in questi giorni uno studio sulla geologia di Permian, affermando che nell’area potrebbero esserci riserve tecnicamente recuperabili per altri 60-70 miliardi di barili: una ricchezza paragonabile a quella del giacimento saudita Ghawar, il più grande del mondo.

I campanelli di allarme si stanno però moltiplicando. Pioneer Natural Resources a inizio agosto ha abbassato del 9% il target di produzione di greggio per il 2017, poiché dai pozzi di Permian scaturiscono quantità di gas superiori alle attese. La società ha parlato di pozzi «più difficili da gestire», facendo sospettare che all’origine dei problemi possa esserci quello che gli ingegneri petroliferi chiamano un «frack hit»: il danneggiamento di pozzi adiacenti, con perdita di pressione, che si verifica quando si trivella in modo troppo intenso e ravvicinato.

Altre società hanno segnalato incidenti analoghi, aggiungendo un’ulteriore preoccupazione a quelle – ormai annose –dell’eccessivo indebitamento e della scarsa (o più spesso nulla) redditività del settore dello shale. Proprio i frack hits hanno convinto Russell Clark dell’hedge fund Horseman Capital Management a vendere allo scoperto le società di fracking e da poco si è unito al coro anche il celebre Jim Chanos di Kynikos Associates: aveva anticipato lo scandalo Enron, ora sta “shortando” Continental Resources.

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