STRATEGIE DI INVESTIMENTO

Borsa: quelle azioni «aristocratiche» che battono sempre gli indici

di Enrico Marro

(EPA)

2' di lettura

Si chiama “S&P 500 Dividend Aristocrat” ed è un indice creato nel maggio del 2005 da Standard and Poor’s. Anzi, più che un indice è un club molto nobile ed esclusivo. Per riuscire a entrarci, sono necessari tre requisiti non da poco: fare parte dell’indice S&P500, avere una capitalizzazione minima di mercato di tre miliardi di dollari e - soprattutto - avere aumentato la distribuzione di dividendi per un minimo di 25 anni consecutivi.

Cinque lustri di cedole in crescita ininterrotta non sono da tutti, ma il risultato di tale selezione è che l’élite borsistica approdata nell’esclusivo indice “aristocratico” ha regolarmente sovraperformato Wall Street nel suo complesso. Prendiamo i dieci anni compresi fra il 30 giugno 2007 e il 30 giugno 2017: il “Dividend Aristocrat Index” ha fatto guadagnare un 10% medio annuo, contro il 7,18% dell’indice S&P500. Per di più con un livello di rischio inferiore, visto che la deviazione standard (la misura la volatilità di un investimento) degli “aristocratici” è stata del 14,15% contro il 15,21% dello S&P500. In soldoni, nell’ultimo decennio i “dividend aristocrats” hanno sovraperformato l’indice guida di Wall Street del 3% medio annuo, con un rischio (deviazione standard) inferiore di circa il 7%. A riprova del fatto che non sempre maggiori rendimenti sono associati a maggiori rischi.

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Facile intuire perché le azioni con il “sangue blu” vadano così bene. Le società che si permettono di aumentare i dividendi per almeno un quarto di secolo hanno un flusso di cassa operativo robusto e consolidato, tanto da permettere ai consigli d’amministrazione di pagare cedole in continua crescita. Il che non solo è indice di salute, poiché tende a escludere il ricorso a fonti esterne di finanziamento, ma remunera anche l’investimento dell’azionista con un flusso continuo e stabile di cash. Qualcosa di particolarmente apprezzato per esempio da piccoli azionisti, come i pensionati, che hanno bisogno di entrate sicure su base periodica.

Ma chi fa parte della nobiltà dei dividendi? Le grandi e antiche società americane, robuste e stabili, che tanto piacciono a investitori “value” alla Warren Buffett: nomi come Coca-Cola, Exxon Mobil, Mc Donald’s, Procter & Gamble, Colgate-Palmolive. Walmart, Pepsi e Johnson & Johnson. Ma anche società finanziarie come T Rowe Price o Aflac, e aziende attive nelle telecomunicazioni come AT&T. Una pattuglia eterogenea che spazia dai generi di consumo alla ristorazione, dalla finanza all’energia e alle telecomunicazioni.

Sarà sorprendente, ma tra i “dividend aristocrats” (i cui indici sono replicati da diversi Etf, quotati anche a Piazza Affari) non ci sono le azioni dei colossi tech, così tanto di moda: niente Apple, zero Google, Facebook e Amazon non pervenute. E pure si tratta di società che hanno flussi di cassa colossali. Il problema è che non hanno alle spalle un quarto di secolo di dividendi in continuo aumento, anche perché molte di loro sono nate da meno di vent’anni. L’unica anzianotta è Apple, che è quotata in Borsa dal lontano 1980, ma nella sua lunga storia ha vissuto tempi difficili e comunque ha ripreso a distribuire cedole solo da cinque anni. Nel salotto dell’antica e solida nobiltà finanziaria, insomma, l’hi-tech resta ancora un parvenu.

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