editorialeL’EDITORIALE

Se in Europa l’industria è più veloce della politica

di Giuseppe Berta

(Afp)

3' di lettura

Con la fusione delle attività ferroviarie della francese Alstom e della tedesca Siemens il processo di consolidamento dell’industria europea sta per compiere un altro importante passo avanti. Se il matrimonio si farà, nascerà un gruppo con un giro d’affari di 15 miliardi di euro e quasi 60mila addetti. Ad onta di un quadro politico europeo sempre più problematico, dunque, la convergenza delle grandi imprese continentali procede, soprattutto su quell’asse franco-tedesco che probabilmente incontrerà maggiori ostacoli sul fronte delle istituzioni, dopo il risultato delle elezioni politiche in Germania.

Ma l’intesa tra Alstom e Siemens apre spiragli anche per una risoluzione positiva dell’accordo di Fincantieri con Stx, per il quale sembra ora che si possano vincere le iniziali resistenze francesi. Ora l’urgenza è quella di difendere la produzione europea, favorendo la costituzione di grandi imprese in grado di fungere da «campioni continentali», in luogo dei declinanti campioni nazionali, dotati di dimensioni inidonee a reggere la competizione mondiale.

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Beninteso, la politica delle fusioni non è fatta per piacere a tutti. Così si comprendono le riserve dell’amministratore delegato di Fs Renato Mazzoncini, che lamenta una riduzione della concorrenza fra le case produttrici di treni. Dal suo punto di vista, sarebbe preferibile che Alstom e Siemens mantenessero la loro autonomia. Ma le tendenze economiche e industriali spingono in un’altra direzione.

Anche questa fusione ha un’origine precisa, perché si propone di fronteggiare l’offensiva cinese. Oggi la Cina rappresenta il vero sfidante per tanta parte dell’industria mondiale, con le mosse da gigante – l’espressione in questo caso è la più appropriata – che sta facendo in molti settori. Nel campo della produzione di materiale ferroviario, la Cina ha conosciuto uno sviluppo rapido e sorprendente. L’Economist (23 settembre) ha definito la linea ad alta velocità che congiunge Pechino e Shangai «un trionfo della politica industriale così come dell’ingegneria». Una nazione che pochi decenni fa non disponeva di un sistema ferroviario articolato ha costruito in meno di quindici anni 20mila chilometri di percorsi ad alta velocità, più di quanto ne abbia tutto il resto del mondo.

Questo risultato è stato conseguito grazie a quella che il governo cinese intende come la propria via alla politica industriale. Essa si è fin qui fondata su un mix di condizioni peculiari, una combinazione di tecnologia straniera, capacità domestiche, domanda di mercato e fondi governativi, che ha messo le ali a un gruppo di grandi imprese ora risolute a misurarsi col mondo per conquistarsi posizioni di primato. Nel campo delle ferrovie, lo stato cinese ha messo a disposizione i finanziamenti per la ricerca sull’innovazione nei trasporti, il terreno per la posa dei binari, aiuti per compensare le perdite d’esercizio, sussidi per i fornitori e incentivi per le imprese estere in possesso di alta tecnologia (anche la Siemens ne ha beneficiato in passato). Davanti a una simile centralizzazione di risorse, le imprese occidentali non possono che reagire percorrendo la strada delle aggregazioni e delle fusioni, in un contesto di urgenza che induce a superare le vecchie logiche e gli interessi nazionali. Anche Emmanuel Macron, che deve peraltro far quadrare il bilancio francese, pare averlo compreso, riconoscendo l’obsolescenza del vecchio schema di difesa dei campioni nazionali. Certo, la dinamica che accelera le operazioni di consolidamento è in contrasto con i princìpi di valorizzazione della concorrenza, come ha ricordato Mazzoncini. Ma oggi il vento soffia da un’altra parte. Con la consueta provocatoria franchezza, qualche tempo fa Peter Thiel, il celebre venture capitalist della Silicon Valley, ha detto che «la concorrenza è per i perdenti», a significare che predomina la tendenza alla concentrazione. Una espressione che, nella sua brutalità, suggella lo spirito dei tempi.

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