la rivolta dei giocatori di colore

Lo sport americano in ginocchio contro Trump

di Marco Valsania

I giocatori degli Indianapolis Colts in ginocchio durante l’esecuzione dell'inno americano

3' di lettura

NEW YORK - Tre intere squadre di football americano rimaste negli spogliatoi durante l’inno nazionale. E tanti, tantissimi atleti che negli stadi si sono inginocchiati o hanno ascoltato Star-Spangled Banner a braccia legate l’un con l’altro. Spesso con l’adesione e a volte con la partecipazione non soltanto degli allenatori ma dei proprietari dei team.

L'ira di Trump contro i campioni 'ribelli' dello sport

Qualcuno l’ha già battezzato come il più grande gesto di rivolta nella storia moderna dello sport americano. Un atto di disobbedienza civile davanti a un presidente, Donald Trump, che ha fatto dei giocatori professionisti del football - ma anche della pallacanestro - l’ultimo bersaglio per mobilitare la sua base più radicale. Per inviare un messaggio carico di toni razziali - razzisti, accusano i critici, nonostante i suoi dinieghi - al suo elettorato sensibile al populismo più bieco.

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È stato un attacco ad atleti spesso afro-americani a uso e consumo di una audience spesso bianca (due terzi dei giocatori di football sono di colore, tre quarti dei tifosi sono caucasici). Che ha sollevato la cruda immagine del gladiatore senza diritti, pagato per far divertire purché non osi alzare la testa. Un messaggio lanciato oltretutto senza risparmi di volgarità e insulti, usando ancora una volta il pulpito della Casa Bianca per dividere invece di unire il Paese.

Se sport e politica sono sempre ben più intrecciati di quanto qualche spettatore vorrebbe ammettere - fin dai tempi di Panem et Circenses - Trump ha adesso trasformato lo sport americano in frontiera scottante dello scontro sociale e culturale dagli esiti difficili da prevedere. Una scelta tanto più controversa visto il culto - oltre agli interessi economici - che vi ruota attorno, che lo celebra come bastione di ottimismo e tessuto connettivo di una nazione grande e diversa.
L’escalation della nuova crisi domestica è avvenuta nel giro di poche ore e giorni.

Trump durante un rally in Alabama ha deciso di prendere di petto una silenziosa e ancora piccola protesta che dall’anno scorso scuote i campi da gioco americani: atleti che in protesta contro le ingiustizie razziali e la violenza delle forze dell’ordine contro le minoranze poggiano un ginocchio in terra durante le cerimonie intensamente patriottiche che caratterizzano l’inizio delle partite. Una protesta fatta scattare dall’ex quarterback - regista - dei San Francisco 49ers, Colin Kaepernick, oggi senza impiego forse proprio a causa del suo gesto. Trump ha alzato il tiro: ha detto che qualunque protesta durante l’inno è un affronto alla bandiera e al Paese e qualunque atleta che la sposi deve essere licenziato. Di più: ha aggiunto che chi protesta è «un figlio di p...»

Il presidente ha poi rincarato la dose affermando che nuove regole per evitare eccessivi traumi al cervello nel football, uno scandalo provato e costato la vita e indicibili sofferenze a numerosi giocatori, «stanno rovinando lo sport». Poco prima, per buona misura, aveva revocato con toni irati l’invito alla Casa Bianca per la squadra campione di pallacanestro dei Golden State Warriors, dopo che la sua stella, Stephen Curry, aveva indicato che avrebbe saltato la visita in reazione alla retorica razziale ripetutamente usata da Trump. Trump si è barricato dietro mura di tweet nel fine settimana.

La reazione degli atleti è stata forte: “U Bum”, “Tu pezzente”, è stata la risposta a Trump di LeBron James, forse il miglior giocatore di basket dell’ultima generazione. Anche la squadra campione del torneo universitario di pallacanestro, quella della North Carolina, ha fatto sapere che eviterà la Casa Bianca. Intanto la protesta ha contagiato anche il baseball.

Ma il fulcro della battaglia è rimasto il football, lo sport americano più seguito. Le squadre dei Seattle Seahawks e dei Tennessee Titans sono rimaste fuori dal campo durante l’inno nazionale e così quella dei Pittsburgh Steelers con l’eccezione di un solo giocatore. Altrove ginocchia hanno toccato il suolo e braccia si sono incrociate in atteggiamenti di solidarietà con le proteste e ira contro il presidente. Il sindacato dei giocatori e Roger Goodell, il repubblicano capo della Lega delle squadre professionistiche Nfl, sono usciti allo scoperto con prese di posizione scritte e così hanno fatto non pochi proprietari di squadre, spesso anche conservatori e vicini a Trump come Robert Kraft dei New England Patriots che si è dichiarato «profondamente deluso» dalle parole del presidente.

Altri sport hanno fatto quadrato attorno a Trump - anzitutto il Nascar delle corse automobilistiche che ha fatto sapere non tollererà proteste di piloti. E nei sondaggi tra le tifoserie regna la confusione. Ma c’è chi ricorda che le crociate per i diritti civili nono sono mai state gare di popolarità. Le gesta di domenica sui campi da gioco d’America potrebbero insinuarsi a fatica ma a lungo nella coscienza collettiva. Come quel pugno guantato alzato da Tommie Smith e John Carlos sul podio delle Olimpiadi nel lontano ma mai dimenticato 1968.

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