In Siria è in corso una guerra che sta producendo infiniti crimini contro l’umanità, per questo l’Europa deve rompere la propria cortina di indifferenza verso un conflitto tanto drammatico e sanguinoso. Non è una questione di partigianerie, di stare con una o con l’altra parte, ma di fermare un meccanismo capace di alimentare violazioni gravissime dei diritti umani e di causare la fuga di milioni di profughi disperati nei Paesi limitrofi. «L’Europa riconosca il dramma siriano e si apre all’accoglienza, i diritti umani non sono privilegi». E’ intorno a questi punti che si sono ritrovati d’accordo diversi fra gli intervenuti alla presentazione della mostra «Nome in codice Caesar – Detenuti siriani vittime di tortura», in corso dal 5 al 9 ottobre al Maxxi di Roma.

Si tratta di una documentazione per molti versi eccezionale e di una storia particolare: un fotografo militare siriano, un ufficiale, (il “Caesar” del titolo) ha infatti documentato, su incarico del regime, migliaia di casi di tortura e di morte avvenuti fra il 2011 e il 2013 nei centri detentivi del regime di Damasco; nel frattempo, però, caricava segretamente la documentazione raccolta su chiavette usb e all’inizio del 2014 è riuscito a lasciare il Paese. Il materiale che ha portato con sé, circa 55mila immagini, è stato sottoposto ad analisi da vari organismi internazionali, fra cui Human Rights Watch, che ne hanno nel tempo confermato l’autenticità. La mostra contiene solo una piccola selezione delle fotografie raccolte da «Caesar», e prima di approdare a Roma è stata al Palazzo di Vetro dell’Onu a New York, all’Holocuast Memorial Museum di Washington e al Congresso, alla facoltà di Legge dell’Università di Harvard, al Parlamento Europeo di Strasburgo, alla House of Commons di Westminster, alla Royal Hibernian Academy di Dublino.

Nel pomeriggio del 5 ottobre è stata presentata in due diverse conferenze al Maxxi. Sono intervenuti, fra gli altri, Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio; padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli; Giancarlo Bosetti, direttore della rivista «Reset»; Stephen J. Rapp, rappresentante degli Stati Uniti in materia di giustizia penale internazionale dal 2009 al 2015; Baykar Silvazliyan, presidente emerito dell’Unione armeni in Italia. Presenti anche rappresentanti delle istituzioni: Pierferdinando Casini, in qualità di presidente della commissione esteri del Senato; Fabrizio Cicchitto, presidente della commissione esteri della Camera; e Luigi Manconi, presidente della Commissione bicamerale per la tutela dei diritti umani del Senato.

«Vedere la morte e vedere il dolore – ha affermato Riccardi nel corso del suo intervento - non può lasciare indifferenti. Questi scatti producono uno choc nella nostra coscienza. In Italia, dopo 30 anni di battaglie per la pace, ci troviamo di fronte a una consolidata indifferenza verso la crisi siriana. L’indifferenza del mondo europeo di fronte a questa crisi è la stessa che si vede di fronte ai rifugiati». Ma gli europei, ha aggiunto, non hanno capito questa guerra. Non è facile oggi dire “stiamo da questa parte”, “questi sono i buoni”, come qualche volta è accaduto in passato. «Nel mondo globale si richiede un salto di intelligenza che va oltre le partigianerie». Quella siriana del resto, è una guerra intricata in cui s’intrecciano diverse vicende: ci sono le complicità fra Bashar al Assad e Isis, e le responsabilità nella crisi di Arabia Saudita, Qatar, Turchia, quindi «il rifiuto sistematico di negoziare da parte della Russia nella prima parte del conflitto».

«I miei amici cristiani d’oriente - ha aggiunto il fondatore della Comunità di Sant’Egidio - mi dicono che Assad è il male minore, ma questa mostra ci dice che anche Assad è il male». Riccardi ha ricordato che il tessuto della convivenza nel Paese era stato già stato colpito in passato, con le distruzioni di Hama negli anni ’80, poi con l’espulsione della comunità ebraica. «La distruzione di un tessuto umano di convivenza è una cosa che lascia il segno, che si paga» ha aggiunto. «Distruggere Aleppo – ha osservato ancora - è un crimine contro l’umanità, un crimine sono i barili bomba del regime, ma un crimine sono anche i cannoneggiamenti delle forze ribelli sui quartieri occupati dall’esercito di Damasco».

Allora, per Riccardi, «quello che si chiede è una presa di coscienza della nostra opinione pubblica, questa guerra è un crimine ed è la madre di altri infiniti crimini, per questo va fermata». «Si è giocato d’azzardo sul tavolo siriano – ha aggiunto - che è stato trasformato nel casinò della politica internazionale», come conseguenza «l’Europa è stata destabilizzata da una manciata di rifugiati che arrivano nella parte orientale del continente».

Un ragionamento simile ha svolto Gianfranco Bosetti, per il quale «sicuramente Assad è responsabile di tanti crimini, c’è però anche l’Isis con il massacro della minoranza Yazidi, e di certo sono un crimine i bombardamenti indiscriminati su Aleppo». Fino al dicembre 2015 è documentata la vendita di petrolio dall’Isis ad Assad , ha ricordato il direttore di Reset. Con la guerra siriana, ha spiegato ancora, siamo di fronte «a un labirinto di responsabilità, dove alcune responsabilità coprono quelle di altri e non bisogna lasciarsi ingannare da questo labirinto». «I documenti della mostra – ha poi sottolineato - contengono l’evidenza di quanto è accaduto, la loro stessa raccolta è stata concepita come un repertorio di prove per un futuro processo internazionale il cui modello è quello della ex Jugoslavia», affermazioni pure condivise da Stephen J. Rapp, rappresentante degli Stati Uniti in materia di giustizia penale internazionale dal 2009 al 2015.

Il presidente del Centro Astalli, padre Camillo Ripamonti ha afferamto: «Vedendo questa mostra mi viene in mente un’immagine, quella di Papa Francesco ad Auschwitz che cammina in silenzio». «Dobbiamo parlare della Siria e dell’Europa – ha aggiunto - di come si comporta nei confronti dei profughi che fuggono da quel conflitto; non bisogna dimenticare che 1/3 dei profughi ha subito una qualche forma di tortura».

«Credo che non dobbiamo fermarci solo alle immagini di questa mostra – ha poi detto Ripamonti a Vatican Insider - ma pensare che attualmente ci sono persone che hanno subito questo tipo di tortura e che sono in viaggio per arrivare in Europa, e la nostra politica europea le ha bloccate molto spesso in campi profughi che non permettono loro di arrivare nei Paesi europei. Non facciamo altro che prolungare queste sofferenze e queste torture che loro hanno già subito durante la guerra. Un passo importante è allora quello di cambiare la politica europea, di trasformarla in una politica di accoglienza che riconosce il dramma della guerra siriana e riconosco il dramma di queste persone».

Resta centrale in tutto questo, il nodo delle guerre da cui derivano i problemi di cui stiamo parlando...

«Sì, noi diciamo spesso: bisogna fermare la migrazione dei popoli, ma l’unica migrazione che possiamo fermare veramente è quella legata ai conflitti che sono in atto; una guerra come quella siriana che dura da più di cinque anni ha creato milioni di persone esuli dalla loro casa o dal loro Paese, oltre due milioni sono usciti dalla Siria. Porre uno stop alla guerra significa bloccare questi flussi, ed è questa l’unica migrazione che è possibile davvero fermare, come quella legata all’ingiustizia, cioè alla povertà».

Torna, drammatico, il tema dei diritti umani, un dato che pensavamo acquisito e invece assistiamo a una regressione su questo piano...

«Come Europa stiamo trasformando i diritti in privilegi; così a persone che, come noi, hanno diritto di migrare e a vedere riconosciuti i loro diritti come persone, queste prerogative non vengono più concesse poiché tutto questo lo vediamo ormai come un nostro privilegio e come qualcosa che loro possono sottrarci in termini di stili di vita, di tenore di vita; si tratta però di un meccanismo che alla fine rischia di mettere in discussione il fondamento dei diritti di tutti».

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