Arturo Diaconale: il coraggio delle idee

Arturo Diaconale, nella vita pubblica, è stato molte cose: giornalista di rango, ascoltato opinionista, efficace rappresentante sindacale, amato dirigente sportivo, apprezzato amministratore di enti pubblici, coraggioso imprenditore del mondo editoriale. Ciò che la sua poliedrica personalità gli ha consentito di fare al meglio è certificato dalle attestazioni di stima e di affetto, documentate nei tanti “saluti” pubblicati da L’Opinione. Per quei tratti gentili e tolleranti del suo carattere verrà ricordato da amici e avversari come uomo equilibrato, di grande valore. E la sua morte sarà per tutti una perdita irreparabile. Tuttavia, di Arturo Diaconale resterà il suo pensiero politico. Già, perché il “direttore” è stato un vero intellettuale, capace di concepire una visione del futuro del Paese in virtù di un’interpretazione meta-politica del liberalismo, che è stata la stella polare del suo percorso politico-culturale e professionale. Tant’è che associare il nome di Diaconale all’ideale liberale è una connessione condizionata, da riflesso pavloviano. Il centro gravitazionale della sua riflessione politica è stato la declinazione nella prassi del concetto di libertà. Squadernata un’ovvietà: Diaconale è stato liberale, può interessare domandarsi quale liberalismo sia appartenuto al “direttore”. Il liberalismo, come teoria filosofico-politica (non lo si chiami teoria economica), è una coperta larga che, a seconda di come la si tiri, può coprire decifrazioni molto diverse della realtà, del rapporto cittadino-Stato, dei meccanismi regolatori dell’economia di mercato, del coefficiente di redistribuzione della ricchezza da consentire alla mano pubblica e del grado di libertà da riconoscere all’intrapresa privata nei settori strategicamente sensibili per gli interessi collettivi delle comunità umane. Al riguardo, asserisco che Diaconale, per usare una qualificazione attribuita a Benedetto Croce, sia stato un liberale atipico. Il suo ideale si sviluppa nel solco della tradizione del liberalismo risorgimentale, più attento alla salvaguardia della giustizia sociale, garantita dalla centralità dello Stato, di quanto non lo fossero le correnti anglosassoni del liberalismo. Di tale orientamento rendo testimonianza.

Alcuni anni orsono, nel corso di una franca discussione telefonica, il “direttore” mi contestò un’affermazione, inserita in un mio articolo, con la quale sostenevo che il liberalismo non avesse espresso una teoria positiva dello Stato, ma solo cercato di vincolarlo dal punto di vista etico e di subordinarlo dal punto di vista economico. L’idea non era mia ma l’avevo mutuata dalla teoria di Carl Schmitt sulle categorie del politico. Nel mentre provavo a esporre le mie ragioni Arturo mi interruppe e, con un’espressione brusca che sapeva di rimprovero, mi disse: “Ma come fai a non considerare Silvio Spaventa”. Ebbene, quel richiamo, in apparenza fuori contesto, mi accese una luce di chiarezza sul liberalismo di Diaconale, inconfutabilmente tributario degli insegnamenti dei fratelli Spaventa, Silvio e Bertrando, che avevano coniugato il principio liberale con il concetto hegeliano dello Stato. Come poi si ritrova dispiegato in Benedetto Croce. Questo episodio offre la chiave di lettura per comprendere l’attenzione che Diaconale riserva nei suoi scritti e nei suoi interventi pubblici a un’economia di mercato che resta l’asse portante della società del futuro fintantoché garantisca la libera concorrenza e la competizione tra i produttori e non si trasformi in autoritarismo finanziario-economico. Diaconale prende posizione, da liberale, contro le grandi aziende che creano oligopoli strangolando il mercato. La sua critica alla globalizzazione si focalizza sul rischio di depauperare il valore dell’Uomo occidentale, in particolare con la proletarizzazione dei ceti medi, a beneficio del profitto di pochi privilegiati. Il principio viene ribadito nell’Appello per una Destra liberale, considerato il suo testamento politico. Scrive Diaconale: “Ora bisogna dare vita ad una destra liberale...che esalti e difenda il lavoro in tutte le sue forme perché è nel lavoro che si fonda gran parte della dignità umana ed è solo grazie ad esso che si può produrre crescita e sviluppo in grado di combattere la povertà, l'emarginazione e la disperazione dei ceti più deboli e svantaggiati. Come non scorgervi l’impronta dell’atipicità crociana, che non esclude la possibilità di cogliere punti di comunanza tra il liberalismo e alcuni elementi di giustizia sociale propri del socialismo? Possibilità, invece, negata in radice da Luigi Einaudi. Tale visione impatta la pratica politica di Arturo

Come ha ricordato Giuseppe Basini in una dichiarazione a Radio Radicale, Diaconale negli anni Novanta prefigurava la nascita di una coalizione politica di stampo degasperiano che richiamasse all’unità un arco di forze partitiche che andavano dalla destra post-missina ai socialisti craxiani, passando per le correnti liberali, repubblicane e radicali presenti nella società. L’idea evidenzia un’intuizione peculiare della concezione politica di Arturo: egli paventava il rischio, insito nel bipolarismo antropologico italiano, di una guerra di posizione tra due blocchi ideologici rigidamente contrapposti. La sua idea, in parte mutuata dalla visione tatarelliana di allargamento del polo di centrodestra, era quella di procedere all’indebolimento del centrosinistra per “sottrazione”, spostando cioè in un’area moderata tutte quelle componenti che verosimilmente avrebbero potuto riconoscere un comun denominatore nell’economia di mercato e nella pratica del garantismo associato alla difesa dello Stato di diritto, per sottrarle all’egemonia della sinistra. Allo scopo, è lo stesso Diaconale a raccontare in un’intervista di aver provato a lungo, senza successo, a battersi per portare a destra il Partito Radicale, di cui è stato a lungo elettore, nel convincimento che l’irrobustimento di una componente laica nel centrodestra avrebbe spostato l’asse della coalizione verso un riformismo avanzato mentre a sinistra quella stessa forza sarebbe stata annichilita dal massimalismo, lì imperante, degli ex-comunisti.

Non fu quello il primo tentativo di imprimere un cambio di passo al quadro politico. Già quando era a “Il Giornale” di Indro Montanelli, con la pattuglia della redazione romana aveva provato ad avvicinare la linea del giornale alla politica craxiana, ma in quell’occasione trovò l’opposizione del vecchio maestro che dei socialisti non ne voleva sapere. Il radicamento risorgimentale del suo liberalismo ha portato Diaconale a non abbandonare la concezione del primato dello Stato nazionale rispetto alle tendenze, proprie del liberismo, motore della globalizzazione, di destrutturazione dell’articolazione statuale a vantaggio di entità regolatorie sovranazionali, da affidare alle governance tecnocratiche in assenza totale di controllo democratico. Tale concezione è chiaramente espressa in una sua pubblicazione del 2012 dal titolo “Per l’Italia-Un’idea nazionale, un’idea liberale”(Editore Rubbettino). Nel testo, Diaconale espone la tesi secondo cui la strada per uscire dalla crisi economica e tornare a essere competitivi sul mercato globale deve necessariamente passare attraverso il recupero della piena sovranità nazionale e la fine del progressivo indebolimento dell'identità italiana. Anche la partecipazione al progetto di unificazione politica europea, per Arturo, è subordinata al recupero della sovranità e dell’identità nazionale. Concetto ribadito nel suo testamento politico quando ammonisce la destra liberale che verrà perché “non si appiattisca su un europeismo di maniera politicamente corretto ma si batta con decisione per gli Stati Uniti d’Europa sul modello degli Stati Uniti d'America”. Anche sulle soluzioni all’uscita dalla crisi che attanaglia l’Occidente, Arturo non ha dubbi. Scrive nell’editoriale del numero 2/2017 della Rivista L’Opinione: “Il fallimento delle istituzioni interazionali come l’Onu e la mancata realizzazione dell’unità politica dell’Europa impone al nostro Paese di trovare comunque una strada nazionale...per un’uscita dalla crisi e per la soluzione dei grandi problemi del presente...si tratta di raccogliere l’indicazione di Giuseppe Mazzini data all’Italia di non ripetere nell’errore di delegare alle altre potenze il compito di risolvere i problemi nazionali”. Per Diaconale, ieri come oggi, la via maestra è il mazziniano fa da sé.

La difesa dell’identità nazionale è una priorità che irrobustisce e non svaluta la battaglia per la difesa della civiltà occidentale, per i suoi valori costitutivi. Al riguardo, la critica di Arturo punta sulla deviazione terzomondista, anticapitalista e pauperista del pontificato di Jorge Bergoglio. Nel suo libro “Santità, ma possiamo ancora definirci cristiani?(Editore Rubbettino), pubblicato nel 2018, analizza la mutazione genetica della Chiesa di Roma, provocata dall’attuale Pontefice, “nella più grande Ong (senza navi) del pianeta”, avendo abdicato alla difesa dell’originalità dell’impianto teologico cristiano per dare vita, con l’Islamismo, a una sorta di sincretismo buonista universale. Un sincretismo, tuttavia, unilaterale perché non condiviso dai musulmani, in particolare dall’Islam radicale, il quale ha sfruttato la debolezza della posizione della Chiesa di Roma per rilanciare l’offensiva globale contro l’Occidente cristianizzato. Arturo individua nel peronismo straccione di Begoglio la volontà politica di cancellare quel tratto della civiltà occidentale fondato sulla storia bimillenaria del cristianesimo e di sostituirvi la linea dell’accoglienza senza limitazioni, fissata da Papa Bergoglio come “conseguenza diretta di questa rinuncia da parte della Chiesa della propria identità occidentale e della scelta di una nuova identità fondata su un globalismo inter-religioso alternativo al globalismo delle multinazionali” (Rivista L’Opinione, idem). La critica radicale all’ipocrisia del politicamente corretto responsabile dell’appiattimento di stampo totalitario della società occidentale, il cui mantice è la cultura egemone dell’intolleranza, mira alla difesa a oltranza dell’individuo e dei suoi diritti inalienabili. L’obiettivo rimanda alla questione del garantismo che ha rappresentato nel percorso intellettuale e di vita di Diaconale un capitolo decisivo. È noto quanta passione e impegno civile Arturo abbia profuso nella battaglia contro il giustizialismo e l’uso politico della giustizia. Sono altresì note le sue meritorie iniziative per la difesa dei diritti processuali degli imputati, che è superfluo elencarle. Qui vale osservarne un aspetto politico significativo per comprendere il perché della diffidenza di Arturo verso le forze sovraniste della destra: i messaggi ambigui che queste hanno mandato sulla questione centrale del garantismo. La preoccupazione di Diaconale si focalizzava sulla possibilità che le manifestazioni di adesione al garantismo, soprattutto da parte del leader leghista Matteo Salvini, fossero in realtà uno stratagemma tattico, un Cavallo di Troia, per captare il consenso dell’elettorato moderato ma che, una volta preso il potere, il sovranismo sarebbe tornato a far valere quella pulsione giustizialista iscritta nel suo Dna. Ad Arturo va riconosciuto un indubbio merito: aver inquadrato la condizione effettiva dell’Italia del Terzo millennio paragonandola allo stato del nostro Paese nei tre secoli che separarono il periodo rinascimentale dall’epopea risorgimentale. L’analogia è di palmare evidenza: dopo la fase rinascimentale l’Italia, espressione geografica suddivisa in staterelli, divenne il terreno di caccia delle potenze europee straniere che vi esercitarono le loro spinte egemoniche depredandola delle sue ricchezze. Il declino venne interrotto dal processo, tormentato, di composizione dello Stato nazionale. Oggi si corre il medesimo rischio di degradazione della sovranità per mano dell’asse carolingio franco-germanico. L’intuizione di Diaconale, che sostanzia la sua visione del futuro dell’Italia, fa perno sulla riscoperta di un senso di coesione intracomunitaria nel segno di un umanesimo liberale che “alla luce dell’esperienza degli ultimi due decenni superi la proposta della rivoluzione liberale lanciata dal centrodestra del ‘94 e si pone come logica continuazione di quella esperienza” (in Rivista L’Opinione, idem). Ecco dunque il cardine del lascito di Arturo Diaconale alle future generazioni d’intellettuali e di praticanti i principi del liberalismo, insieme a un τόπος, cioè a un luogo di confluenza dei flussi di libero pensiero: il quotidiano L’Opinione e a uno strumento di lavoro irrinunciabile, il metodo critico.

Da laico, Arturo non avrebbe sopportato la sua santificazione post-mortem. Non sarebbe intellettualmente onesto omettere di dire che anche lui abbia commesso errori di analisi e di valutazione, come l’aver creduto che l’avvento dei Cinque Stelle avesse segnato il tramonto del bipolarismo. L’odierna parabola dell’armata grillina dimostra, invece, che l’improvvisa conquista del consenso da parte di un movimento dichiaratamente antisistema sia stata una parentesi fenomenica che non ha intaccato l’adesione, di natura prepolitica, degli italiani alla declinazione bipolarista della democrazia. In questi giorni gli aggettivi per qualificare la personalità di Arturo non sono mancati. Potendo sceglierne uno, riguardo al suo pensiero politico, quello che prediligo è: intransigente. Sì, Arturo Diaconale è stato un intellettuale intransigente. Nessuno come lui, nel tempo storico che l’ha visto tra i protagonisti della cultura italiana, ha saputo rappresentare e praticare con maggiore convinzione, coerenza e autorevolezza la massima crociana: “La storia si pensa come necessità e si attua come libertà”. Per aspera ad Astra, Arturo.

Aggiornato il 10 dicembre 2020 alle ore 09:33