Per Arturo, ovunque tu sia

Trovare un collega corretto nell’orrendo mondo del giornalismo italiano è di per sé cosa rara. Trovare un amico è cosa quasi impossibile. Figurarsi quindi il dolore quasi paralizzante e indicibile per la perdita di una persona come te, Arturo, dovunque tu sia adesso, che assommavi, oltre a queste due figure, quella di una sorta di padre professionale e umano. Quarantatré anni (dicasi 43) di conoscenza, stima, discorsi, dibattiti e perché no, anche di “scazzi”, non si dimenticheranno mai. In particolare ricordo come fosse ieri come smontasti nel 1977, cioè 43 anni orsono, tutte le mie velleità filo rivoluzionarie per i brigatisti rossi dell’epoca con interminabili discorsi sul fatto che quei terroristi, che si credevano per l’appunto dei rivoluzionari, altro non fossero in realtà che un coacervo di figli di papà misti a violenti delinquenti delle borgate delle città metropolitane italiane, uniti solo da velleità ribelliste e probabilmente dai finanziamenti sottobanco che venivano dai Paesi dell’Est comunista. Il bello del parlare con te è che le parole mi convincevano “a scoppio ritardato”. Ci “ripensavo” (come i cornuti, così si dice a Roma) e poi capivo. Era l’epoca dello scandalo Lockheed e io insieme a mio padre di cui sei stato grande amico per oltre 40 anni frequentavo i sacri palazzi della Consulta all’uopo allestiti come sede di un’improbabile alta Corte di giustizia. I prodromi di “Tangentopoli” volendo cercare analogie.

I pomeriggi ci incontravamo nella sala stampa di piazza San Silvestro, ricordo che tu lavoravi per Il Giornale di Sicilia e avevi la stanza accanto alla nostra, cioè quella di Guido Paglia che lavorava alla “Nazione”. Mio padre mi aveva affidato a lui e lui in parte mi aveva affidato a te. All’epoca io non combinavo niente di particolarmente buono perché, a diciotto anni, i giovani attraversano l’età del “coglione arrogante”. Poi però anni dopo le nostre strade si sono di nuovo incrociate, era il 1992, quando tu prendesti la guida de “L’Opinione”, il giornale più antico d’Italia e più blasonato, pensando che fu fondato da Camillo Benso Conte di Cavour, l’uomo che fece l’Italia, al netto dei suoi scandali sessuali leggendari. “L’Opinione” già da allora era un giornale controcorrente, sfidando il popolo dei fax e quella farsa che fu “Mani pulite”. E forse da lì è nato l’ostracismo anche economico che ci ha portato per tanti anni a navigare di certo non nell’oro. Ma la tua guida, tanto ferma quanto liberale, si rivelò lungimirante: nel 1992 era in realtà iniziato il declino italiano, quando ci siamo messi nelle mani dei Pubblici ministeri d’assalto e dei giornalisti che loro reggevano la toga e poi via via siamo sprofondati fino a cadere in mano di gente come Giuseppe Conte, Alfonso Bonafede e Luigi Di Maio. Più che un declino, una Caporetto. Tutto da te previsto ma come vox clamantis in deserto. Pure quando per un po’ sembrò che l’aria potesse cambiare, con la scesa in campo di Silvio Berlusconi, i pozzi del vivere comune e della politica si rivelarono irrimediabilmente avvelenati e alla fine siamo arrivati a quel baratro che tu vedevi come inevitabile. Gli opportunisti cresciuti all’ombra e con i soldi del Cav fecero il resto.

Tu sei stato per me l’unico esempio di giornalista e di direttore che valorizzava le persone meritevoli – tra cui forse anche il sottoscritto – senza paura che gli facessero ombra, come invece capitava in tante altre latitudini e soprattutto nella stampa di centrodestra dove i direttori si circondano non di fuoriclasse, per paura che qualcuno cresca nella loro ombra fino a prenderne il posto. Per questo ricordo con piacere le nostre chiacchierate da amici, pressoché interminabili, al telefono o di persona. Che sono le cose che più mi mancheranno dopo la tua presenza.

Per quanto riguarda la cultura liberale in Italia, pressoché inesistente, ora che dopo Marco Pannella te ne sei andato via pure tu, salvo miracoli e new entry oggi non pronosticabili, vedo l’Italia rassegnarsi a dovere scegliere in un asfittico mercato ideale della politica degno dei supermercati dell’ex Unione sovietica. Del tutto orientato sull’autoritario, e dove la parola “liberale” viene bandita e irrisa. La padella dei grillini e della sinistra filo-pandemica, da una parte, con la dittatura del politically correct e del #metoo (de noantri), e la brace di una destra becera e borgatara da ultrà dello stadio, con a capo gente come Matteo Salvini o Giorgia Meloni dall’altra. Personaggi che credono che si governi un Paese come una curva da stadio. Con i cittadini ridotti a tifosi che fanno coretti tipo “devi morire” o “marcire in galera”. Ma in politica, come pure tu spesso mi dicevi, non c’è bisogno né a destra né a sinistra, di personaggi che hanno lo spessore umano e culturale di un capo ultrà.

Potrei scrivere per mesi ma l’emozione e i ricordi in questo momento mi sopraffanno e mi soffocano. Altre riflessioni ci saranno sicuramente nel futuro anche per quel che riguarda il tuo e il nostro giornale. Per ora ti dico addio Arturo, dovunque tu possa essere in questo momento. Ti ho voluto bene e tanto. E tutti quanti noi ti abbiamo amato. A nostro modo. Come sappiamo fare. Con tutte le nostre contraddizioni e i nostri limiti.

Aggiornato il 08 dicembre 2020 alle ore 15:36