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E' morto Enzo Mari, l'asceta del design

Enzo Mari (fotogramma)
Il maestro aveva 88 anni. Sue creazioni come le sedie Sof-Sof, Delfina, il divano Day-Night, il posacenere Borneo e la celebre Putrella 
La sua regola è sempre stata: "Gli oggetti non devono piacere a tutti, devono servire a tutti"
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Era l'asceta del progetto razionale ed efficiente. Etico, sintetizzava lui. Ma, anche se ne aveva fatti quasi duemila, alcuni straordinari, come la sedia Tonietta e il calendario Timor, Enzo Mari, morto ieri sera a Milano a 88 anni, verrà ricordato soprattutto per il rigore delle sue idee e la spietata passione con cui le ha perseguite. Il primo dei suoi quattro Compassi d'oro, nel 1967, non l'ha vinto con un oggetto, ma "per la ricerca individuale sul design". Una ricerca che l'ha portato molto lontano, in gelidi territori da dove lanciava anatemi contro le debolezze umane e i compromessi terreni. Le sue temute stroncature non hanno risparmiato nessuno. Il design di oggi? "È nudo, benché la sua corte affermi il contrario",  I progettisti? "Polli da allevamento". Le imprese? "Terzisti di lusso". Le scuole? "In gran parte un assurdo chiacchiericcio". Il Salone del mobile? "Quando ci vado mi fa venire prima l'orticaria, poi la voglia di cambiare mestiere".

I suoi richiami a una progettazione in cui "gli oggetti non devono piacere a tutti, ma devono servire a tutti" restano un punto di riferimento per il mondo del design, ma la furia iconoclasta con cui venivano lanciati amareggiava prima di tutto lui stesso, e il silenzio creativo cui si era progressivamente autocondannato appare come estrema, coerente conseguenza del suo pensiero teorico. Fortemente saldato con la sua vita per due ragioni: perché credeva solo nel metodo induttivo o, come diceva lui, nel sistema "prassi-teoria, prassi-teoria, e ancora prassi-teoria", ovvero nella guida della personale esperienza del mondo; e perché bisogna progettare per sé: "Ignorate le ricerche di mercato. Se si riesce a trovare una risposta corretta alle proprie necessità, è probabile che sarà anche la più corretta per gli altri".

Nato nel 1932 in Piemonte da "famiglia con pochi mezzi, nessuna istruzione, nessuna idea politica", come racconta nell'autobiografico 25 modi per piantare un chiodo, si trova subito a dover fare i conti con la povertà ingegnandosi in molte maniere, anche con espedienti. Per esempio vendendo a metà prezzo confezioni di lamette da barba che, aperte, rivelano l'inganno: ne contengono solo una; al posto delle altre, dei pezzetti di legno.

Arrivato a Milano, per guadagnare fa di tutto, insegne per negozi, piccole strutture per vetrine, e anche quello che non sa fare. "Dicevo sempre che sì, sì, sono capace. Poi la notte prima cercavo di indovinare qual era il segreto di quella certa tecnica. Un comportamento che non ho più abbandonato". Ritrovandolo, potentissimo, nei bambini, commenterà: "Avendo osservato i processi di autoapprendimento, sono convinto che sarebbe giusto assegnare il premio Nobel a ogni bambino che compie due anni". Pensando al ruolo chiave del gioco, inventa un puzzle composto da sedici animali, tutti diversi e riconoscibili a prima vista, che s'incastrano perfettamente l'uno con l'altro. Geniale e imitatissimo nella sua semplicità, è il frutto di un duro lavoro e di innumerevoli prove: concepito nel 1957, viene prodotto solo nel 1965.

Deciso a proseguire gli studi, scopre che, non avendo un diploma, non può iscriversi all'università. Scelta obbligata diventa l'Accademia di Brera, dove riesce a entrare "semplicemente disegnando a china una greca". Anche se dirà sempre di essersi iscritto solo per non fare il militare - ed effettivamente non ha mai concluso gli studi - la relazione con l'arte è il filo conduttore di tutta la sua vita. Potrebbe apparire paradossale, per un designer convinto che la forma di una cosa sia la risposta a un bisogno. Eppure Mari nasce prima artista e poi progettista: "Se qualcuno oggi dice che sono un bravo designer è perché ho avuto una formazione da artista, anziché imparare a menadito la miseria manualistica che si propina nelle scuole specializzate". Comincia a farsi conoscere come artista da critici e gallerie d'arte. Viene ripetutamente invitato a Venezia ma, Biennale dopo Biennale, scopre il design. È una folgorazione. "Progettare", si convince, "è una pulsione profonda dell'uomo, come l'istinto di sopravvivenza, la fame, il sesso". Due sono gli incontri fondamentali. Quello con Bruno Munari, che gli fa da mentore e gli dirotta diversi suoi lavori, e con Bruno Danese, editore di prodotti, nel senso che li idea insieme a un autore e delega la mera produzione ad altri.

Per Danese nascono oggetti memorabili come Putrella (1958), un surreale, inagibile vassoio realizzato piegando verso l'alto gli estremi di una trave in acciaio a doppio T, e poi molti oggetti in plastica tuttora prodotti o ricercati da appassionati e collezionisti: i calendari Formosa (1963) e Timor (1967), il posacenere Borneo (1967), la vaschetta componibile portaoggetti Sumatra (1973)... I nomi sono sempre di isole asiatiche per "non complicarsi la vita alla ricerca di nomi che funzionassero in negozio".

È il periodo creativo più intenso. Nel 1966 lascia la moglie (nell'autobiografia evita di dire i nomi di lei e dei figli, uno è lo scrittore Michele Mari), per andare a vivere con la critica d'arte Lea Vergine, con scandalo dei benpensanti e accuse di concubinato. Negli anni Settanta disegna le sedie Sof-Sof, Delfina e il divano Day-Night per Driade, che "ha il difetto di costare troppo poco per cui nessun negoziante lo compra per il margine di guadagno troppo basso" e il sistema di illuminazione Aggregato per Artemide, formato da undici elementi componibili a piacere. L'oggetto più amato resta Putrella; con il cestino per la carta In Attesa e il calendario Timor per Danese, la sedia Tonietta per Zanotta, è il miglior esempio del suo stile in cui l'originalità formale si fonde con una monastica semplicità.

Ma ogni asceta ha il suo tormento, ed Enzo Mari lo trova nella convinzione che "dalla fine degli anni Settanta si conclude l'utopia del design. Si fa avanti, ovunque, il degrado della qualità progettuale: un'ondata di spazzatura che aumenta senza sosta". Socraticamente afferma: "Una forma è buona se è. È cattiva se sembra". E vede dominare un falò delle vanità in cui tutto è immolato al dio dell'Apparenza. La colpa? Del mercato globale, che chiede continuamente nuovi oggetti, producibili e vendibili ovunque al prezzo migliore possibile; delle aziende del settore, colpevoli di aver rinunciato al ruolo di avanguardie; dei designer, che preferiscono adeguarsi al marketing e inventare forme strane, o rifare quelle note, invece di dichiarare che non ha senso continuare a inventare milioni di varianti di sedie, tavoli, divani quando il grande lavoro sarebbe migliorare ciò che già esiste. Nel 2004 polemicamente, e inutilmente, pubblica su "Domus" un annuncio per cercare un "imprenditore con il coraggio di realizzare progetti strategici".

Nemmeno il pubblico è risparmiato. Mari non si capacita che in Italia, "il maggior archivio di opere d'arte", la gente non sappia riconoscere la qualità. Così va interpretato il manuale Autoprogettazione?, pubblicato da Corraini nel 1974 in seguito a una mostra milanese: un tentativo di educare le persone alla cultura del progetto, alla riappropriazione del bisogno elementare di pianificare soluzioni pratiche per le proprie necessità. Tentativo di cui registra la sconfitta quando riceve lettere che gli chiedono di comprare "quei mobili così rustici" - in realtà semplici assi grezze inchiodate - per chalet e case di montagna in Alto Adige o nelle Rocky Mountains. E quando si dichiara comunista, ancora una volta non è tanto per dire che abolirebbe gli operai perché la parcellizzazione del lavoro li ha ridotti "peggio degli schiavi dell'antica Roma", mentre dovrebbero avere una percentuale sugli utili al posto dello stipendio, quanto per ammettere che "gli ultimi a capire un discorso del genere sarebbero proprio gli operai".

Carico di riconoscimenti, lauree honoris causa e fan adoranti, richiesto come docente in tutto il mondo, Enzo Mari accetta ormai solo le poche collaborazioni che gli consentono di "coltivare le mie illusioni", ovvero che il fine di ogni progetto è l'etica, e deve rispondere prima di tutto alla domanda: a che cosa serve? Ma, anche relegandosi in sostanza al silenzio creativo, Mari stesso tira le somme con un guadagno. Perché, da artista, riconosce l'equazione fra etica ed estetica: "posso dire di essere stato molto fortunato. Lavorando, ho inseguito per tutta la vita il sogno della mia ingenuità: realizzare la bellezza".