TORINO. Carlo Casalegno, in questa sala del Consiglio comunale di Torino, il pensiero corre soprattutto al rapporto fra Casalegno, La Stampa e Torino. Io non sono torinese, ma sono stato torinese, fortissimamente torinese nei cinque anni della direzione della Stampa; e nel rievocare quelle tremende giornate credo di ricordarle con lo spirito di un torinese.

Essendo stato torinese, rimarrò sempre un poco torinese. E ne ho orgoglio. Torino ha un'anima complessa. Torino città operaia. Torino città della Fiat. Torino con la tradizione di città capitale. Torino città italiana, anzi romana, ma anche città alpina, che guarda alla Francia e all'Europa. Torino di Gobetti, di Einaudi, di Bobbio, di Gramsci e dell'«Ordine nuovo», Torino comunista e Torino liberale. Torino col suo carattere, la sua sobrietà, la sua serietà, che non si apre e non si dà tanto facilmente, ma che ti accetta quando si convince che impersoni i suoi stessi valori: l'impegno nel lavoro, una forte cultura civica, un senso del dovere che ti compete, per la parte che hai nella vita della città. Si può anche appartenere a diversi partiti, a diverse classi sociali, ma sentendo sempre un legame fortissimo, riconoscendosi uniti dall'essere torinesi, e dai valori che i torinesi riconoscono, magari con una eccessiva punta d'orgoglio, come propri.

[[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) Giornalista e scrittore, è stato inviato e poi direttore de “La Stampa”]]

Coloro che spararono a Carlo Casalegno ebbero contro la città, perché attaccando Casalegno e La Stampa avevano attaccato Torino. Avevano attaccato un uomo che rappresentava le migliori virtù della cultura torinese, della coscienza civile torinese. Vi leggo due frasi. Una dell'Avvocato Agnelli, in occasione dei vent'anni della morte: «Del torinese, Casalegno aveva il rigore, la serietà, la coscienza del dovere, la capacità di pensare attraverso i fatti, per giudicare solo dopo averli esaminati». 
Vorrei, vorremmo poter dire, credo di poter dire, che queste sono anche tipiche virtù del buon giornalismo; e che in Casalegno c'era l'orgoglio di essere giornalista, insieme con l'orgoglio di essere torinese. Esprimeva meglio di ogni altro quello che noi tutti della Stampa sentivamo allora come l'anima profonda, l'identità del nostro giornale, e della grande città di cui era l'espressione. Ed ecco l'altra frase, il commento del senatore Pecchioli subito dopo l'attentato, in quelle prime ore, in cui ancora speravamo che Carlo ce la facesse.

E cito: «Casalegno ha sempre detto quanto doveva essere detto, aiutando anche i giovani a non smarrirsi, a non essere travolti dalla violenza. E' stato aggredito e non c'è nessuna differenza fra i proiettili che l'hanno colpito e le bombe fasciste di piazza Fontana. Non a caso questo attentato e' avvenuto a due ore dal dibattito e dalla votazione in Parlamento d'un documento unitario: dobbiamo esigere assistenza piena dagli organismi dello Stato e, contemporaneamente, fare ''sbarramento'' mobilitandoci sullo stesso terreno che giù ci fece vincere durante la Resistenza». Pecchioli riecheggiava un giudizio di qualche tempo prima di Enrico Berlinguer, quando, in una lettera alla Stampa condannava i terroristi come «irrazionali ma lucidi organizzatori di un nuovo squadrismo non definibili con alcun altro termine se non quello di ''nuovi fascisti''».

Rendendo qui oggi omaggio a Casalegno, alla sua passione civile, alla sua fortezza d'animo, al suo coraggio, alla sua coscienza del dovere, voglio rendere omaggio a Torino. Consentite a un non torinese di dire, in un momento in cui Torino rischia di dubitare di se stessa: non dubitate, Torino ce la farà a superare questa come ogni altra crisi della sua storia. In anni molto difficili credo di essere stato la persona più vicina a Casalegno, certo ho avuto in lui la persona a me più vicina, in momenti in cui da giornalisti, da testimoni dei fatti, ci eravamo trovati ad essere, senza volerlo, dei protagonisti. E penso che se ci fosse Carlo, questo che ho appena detto - non dubitate di voi - lo direbbe e lo scriverebbe, con serena fiducia nella sua città e nei suoi valori. Mi manca, ci manca, la parola di Agnelli, che sarebbe di fiducia, una parola che forse verrà. Ripensando a quegli anni difficili, posso dire che non avemmo mai alcun dubbio sull'esito di quello scontro fra il nostro Stato democratico e quei giovani dissennati e sanguinari che sognando chissà cosa speravano di abbatterlo a colpi di P38.

E non avemmo mai dubbi sul fatto che di fronte a questa minaccia si sarebbe formato uno «sbarramento», per usare le parole di Pecchioli, in cui si sarebbero trovate fianco a fianco tutte le maggiori forze politiche. Quando la sera del 18 novembre mi trovai a parlare a piazza San Carlo accanto al mio amico sindaco Novelli, non ebbi alcun dubbio nell'affermare, e perdonate l'autocitazione, ma certi sentimenti non si possono esprimere se non con le parole pronunciate in quel particolare momento, in cui si commentava un fatto con tutta la piena di sentimenti che aveva suscitato in noi: «Questa città, pur tormentata da una crescita difficile, è viva. E' formata da gente venuta da tutta Italia per costruire e per farsi costruire. Siamo qui anche per esprimere solidarietà gli uni agli altri, per contarci e dire: noi qui siamo e non lasceremo passare la congiura per distruggere questa civile convivenza». 

Quando Carlo Casalegno scriveva gli articoli che gli costarono la vita, quello che aveva in mente era una certa idea dell'Italia democratica, insieme con una certa idea di Torino. Con tutta la lucida forza della sua mente difendeva quell'idea dell'Italia, quell'idea della sua Torino. E, lasciatemelo dire, anche una certa idea di quello che era, voleva e doveva essere il nostro giornale, la nostra Stampa. E' vero, eravamo orgogliosi della Stampa; in qualche modo, La Stampa era non dico la nostra bandiera, forse qualcosa di più, era la nostra casa, forse anche la nostra patria. Possono sembrare parole grosse, ma quelli erano momenti in cui ci agitavano forti passioni. Mi chiedo quanti momenti ci siano stati nella nostra vita in cui non si agitassero attorno a noi i venti della storia, venti di tempesta, che ci tempravano e ci preparavano a dure prove. Forse le Br non avevano capito, non potevano capire, che avevano di fronte a loro una schiera di uomini sopravvissuti a ben altre battaglie, e che questi sopravvissuti non potevano essere piegati col terrore, perché la paura l'avevano lasciata alle spalle, perché battendosi per le loro idee avevano già messo in conto tutto quello che gli poteva succedere. Questo era l'animo del giornalista Carlo Casalegno quando scriveva le sue rubriche in difesa del «nostro Stato».

Che strano: ci sembrava allora, e parlo della schiera di colleghi della Stampa, di fare soltanto il nostro mestiere quotidiano, il nostro lavoro di giornalisti. Quando spararono a Casalegno ci rendemmo conto che Carlo, che era un modello per tutti noi, era stato anche un eroe silenzioso, tranquillo, forse inconsapevole, ma un eroe. Così lo ricordiamo oggi, così lo sentiamo sempre vicino. E ricordandolo così, non so dirvi quanto ci sia mancato e ci manchi.

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