Mario Corso, quello della Grande Inter e delle punizioni a foglia morta, Mariolino per i tifosi. Uno con un palmarès lungo così: quattro scudetti, due Coppe dei Campioni e due Intercontinentali vinti tra il 1958 e il 1973, nelle quindici stagioni disputate in nerazzurro prima di chiudere la carriera con il Genoa. Corso è morto a 78 anni in ospedale, dove era ricoverato da alcuni giorni.

Con lui se ne va un simbolo del calcio italiano degli Anni 60. Nato a Verona il 25 agosto 1941, debuttò in serie A a 17 anni. Con la maglia nerazzurra totalizzò 509 presenze e 94 reti. In campo lo si riconosceva per i calzettoni abbassati, impensabili oggi, per l’estro e per la fantasia. Oltre che per le punizioni, incubo dei portieri. Per lui fu coniata l’espressione “a foglia morta”: nella prima parte della traiettoria il pallone saliva e restava come sospeso, per poi ridiscendere in modo brusco e beffardo.

Lutto nel mondo del calcio: è morto Mario Corso, il piede sinistro di Dio

Sembra che il genere “a folha seca” fosse stato inventato al Fluminense da Didi, quello per capirci  del trio Didì-Vavà-Pelé di una delle più forti Seleçao della storia. Corso lo importò in Italia: «Era un colpo per me naturale fin da ragazzino – spiegò -. Uno dei miei primi allenatori a San Michele, Nereo Marini, mi incitava a provare e riprovare, finito l'allenamento. E anche all' Inter non c'era giorno che non mi esercitassi».

In carriera si guadagnò altri due soprannomi, “mancino di Dio” per la precisione nei tiri e “participio passato di correre”, geniale intuizione di Gianni Brera che così ne marchiò il modo di stare in campo.  Mariolino indossava il numero 11, all'epoca riservato alle ali sinistre: tuttavia, era più propenso ad arretrare e agire da trequartista, tanto che in seguito il suo ruolo fu accostato a quello di Beccalossi.

«Quando Suárez era in forma sapevamo di non perdere, ma quando Corso era in forma sapevamo di vincere», disse il suo compagno di squadra Carlo Tagnin. Quando giravano bene entrambi, arrivavano i trionfi nonostante uno scarso feeling col tecnico Helenio Herrera che, per incompatibilità di carattere, chiedeva ogni anno la cessione di Corso e si scontrava col tassativo rifiuto del presidente Angelo Moratti. 

“Mario Corso era l'unico calciatore che Pelè dichiaratamente avrebbe voluto nel suo Brasile: questo per far capire ai giovani la portata della classe del mio amico". Così lo ricorda Massimo Moratti, figlio di Angelo e presidente dell’Inter del Triplete. "Era il mio preferito della Grande Inter, ma anche mio padre lo adorava, e lui rimase sempre vicino alla nostra famiglia”.

Meno esaltante fu l'esperienza con la nazionale italiana, nella quale Corso giocò 23 partite segnando 4 reti, senza mai prendere parte a un campionato europeo o mondiale. Nel 1975 diede l’addio al calcio giocato e diventò allenatore: nel 1982-’83 sulla panchina del Lecce, poi a Catanzaro. Nel novembre 1985, il presidente dell’Inter Ernesto Pellegrini gli affidò l’Inter per rimpiazzare Castagner. Esordirà contro la Juve (1-1), vincerà 1-0 il derby di ritorno (il primo del Milan di Berlusconi), ma a fine stagione la squadra sarà affidata a Trapattoni. Nella stagione 1991-1992 subentra a Fascetti alla guida del Verona in coppia con Nils Liedholm: è questo l'ultimo atto della sua carriera da tecnico.

I nerazzurri lo omaggeranno domani sera con un minuto di raccoglimento e il lutto al braccio nella partita contro la Sampdoria.

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