Cinque anni di reclusione e cinquemila euro di multa per «divulgazione, trasmissione, offerta e detenzione» di materiale pedopornografico. La sentenza del Tribunale vaticano del processo a carico di monsignor Carlo Alberto Capella, l’ex consigliere della nunziatura di Washington, è giunta alle 13.20 dopo circa un’ora di camera di consiglio e tre ore di udienza questa mattina, durante la quale i Promotori di giustizia vaticani Gian Piero Milano e Roberto Zanotti avevano chiesto cinque anni e nove mesi di reclusione più 10 mila euro di multa.

Una condanna apripista, questa del Tribunale della Santa Sede, considerando che mai in Vaticano si era svolto un processo per pedopornografia, tanto più che il reato è stato configurato dalla legge VIII stabilita da Papa Francesco l’11 luglio 2013 con un Motu Proprio in materia penale e di sanzioni amministrative. E proprio in riferimento all’articolo 10 di quella legge - che stabilisce sanzioni per chi produce o fa commercio di materiale pedopornografico - è stata formulata la sentenza di oggi della Corte vaticana. 

A Capella è stato dato il massimo della pena, tenendo conto della «continuazione del reato» e della aggravante della «ingente quantità» dei file detenuti e diffusi (seppur questo punto fosse stato contestato in mattinata dall’avvocato difensore nella sua arringa). Tuttavia - a quanto si apprende - ai fini della quantificazione della pena, che partiva da una base di 4 anni e 4mila euro, l’aggravante contestata è stata dichiarata equivalente alle attenuanti generiche. Tra queste, anche «il contegno processuale dell’imputato» e la collaborazione durante le indagini. È stata anche decisa la confisca del materiale sequestrato e il monsignore è stato condannato anche al rifacimento delle spese processuali.

Mentre già si parla dell’apertura di un processo canonico per una eventuale riduzione allo stato laicale (sembra che gli atti siano già stati trasmessi alla Congregazione per la Dottrina della Fede), Carlo Alberto Capella sarà recluso intanto in una cella della Caserma della Gendarmeria vaticana, dove già risiedeva dal 7 aprile scorso, giorno del suo arresto, dopo una indagine avviata prima negli Usa e poi tra le mura leonine (in mezzo anche un mandato d’arresto dal Canada). 

Il processo a carico del prelato italiano era iniziato solo ieri pomeriggio. Un processo lampo, dunque, ma non c’era bisogno in effetti di prorogarlo ulteriormente dal momento che lo stesso sacerdote aveva ammesso ogni crimine già dalla fase istruttoria. Più che altro il prelato ci teneva a precisare «il contesto» dal quale era nata questa ricerca compulsiva di foto e filmati di «bambini intenti in atti sessuali espliciti» e il successivo scambio con altri utenti nelle chat private del social Tumblr. Lo ha fatto ieri durante il suo interrogatorio di oltre 50 minuti con il presidente Giuseppe Dalla Torre; lo ha rifatto questa mattina nella sua dichiarazione spontanea pronunciata, in piedi, davanti alla Corte e seguita alle requisitorie del Promotore di giustizia e dell’avvocato difensore Roberto Borgogno.

«Gli errori che ho fatto sono evidenti e li colloco in un periodo di fragilità. Sono dispiaciuto che questa mia debolezza abbia inciso nella vita della diocesi, della Chiesa e della Santa Sede» ha affermato il prelato, dicendosi anche «addolorato» per la sua famiglia. «Spero che questa situazione possa essere considerata un incidente di percorso nella mia vita sacerdotale che amo ancora di più», ha riferito ai giudici con un tono meno meccanico di quella utilizzato ieri. «Voglio continuare ad essere di una qualche utilità nel corretto inquadramento dei fatti e voglio proseguire nel cammino riabilitativo», ha aggiunto.

Cammino già intrapreso subito dopo l’arresto con lo psicoterapeuta Tommaso Parisi che, nell’udienza di ieri, identificava l’imputato come un soggetto «collaborativo», seppur fragile. Anche l’avvocato Borgogno, citando la relazione psico-diagnostica sul monsignore stilata dallo psicologo Luigi Berta depositata agli atti, sottolineava che non sono state rilevate «tendenze alla pedofilia o alla parafilia», ma piuttosto «problematiche di tipo psicologico» nate dalla «crisi interiore» scaturita dal trasferimento da Roma, dove lavorava nella Segreteria di Stato vaticana, alla nunziatura di Washington. Troppi cambiamenti per «una personalità chiusa che tende a svalutarsi, ad autodenigrarsi» e che «ha difficoltà a confrontarsi con la sua sfera delle emozioni».

Il legale ribadiva inoltre che i comportamenti di Capella «non sono indice di una pericolosità ma di un problema» che si potrebbe risolvere e curare attraverso «terapie e strumenti che la Chiesa ben conosce». «Non si può parlare di carcerazione», diceva il difensore nella sua arringa sottolineando peraltro delle «incongruenze» tra il sistema giuridico italiano e vaticano sulla questione della «ingente quantità» del materiale indicato dal Promotore di giustizia come «aggravante» per la pena. Per l’avvocato, infatti, la legislazione vaticana non è precisa nel definire l’«ingente quantità»; se quindi il confronto è con la legge italiana che indica invece in «un centinaio» la quantità punibile, «allora non c’è discussione: qua siamo davanti a 40-50 foto e video al massimo». 

Non è così per i giudici vaticani che, come ha spiegato il Pm Milano, considerano l’aggravante dell’ingente quantitativo non solo in relazione alla «quantità» ma alla «qualità» del materiale scaricato e condiviso. Nel caso di Capella bambini, anche piccolissimi, in atti sessuali espliciti. Milano nella sua richiesta parlava anche di una «chat con una persona in cui si prospettavano anche incontri con persone reali», e sottolineava che «in tutta la condotta di monsignor Capella è configurabile sempre il dolo», ovvero «la piena consapevolezza del suo agire». Quindi è «da escludere ipotesi di captazione accidentale o occasionale del materiale».

L’avvocato aveva risposto quasi sdrammatizzando, dicendo che è stata come una «crisi di mezz’età» simile a quella che si sperimenta dopo alcuni anni di matrimonio. Il monsignore ascoltava tutto questo impassibile. Come impassibile era durante la lettura del dispositivo della sentenza da parte del presidente Dalla Torre, guardando fisso verso un punto nel vuoto.

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