Mimmo Cándito è morto all’ospedale San Luigi di Orbassano (Torino), dopo una coraggiosa battaglia contro il tumore che lo aveva colpito nel 2005. Aveva 77 anni. Storico inviato di guerra della Stampa, editorialista, scrittore e docente universitario di Linguaggio giornalistico, era nato il 15 gennaio 1941 a Reggio Calabria e aveva cominciato la carriera giornalistica al Lavoro di Genova, per poi passare nel 1970 alla Stampa, per cui ha seguito da allora tutti i principali conflitti internazionali. I funerali si terranno martedì 6 marzo alle 15,30 nella parrocchia di Crescentino (Vercelli), quindi verrà tumulato nella tomba di famiglia della moglie Marinella Venegoni.

Di inviati ce ne sono tanti, di veramente speciali ce ne sono sempre stati pochi. E invece basta pronunciare queste due semplici parole, Mimmo e Cándito, che il riflesso viene istintivo e si riempie di vita: «inviato speciale». Dove? In tutte le guerre, in ogni parte del mondo. Nell’emozione e - scusate - nella commozione, andiamo a memoria: non c’è stato conflitto significativo negli ultimi quarant’anni che Mimmo non abbia respirato, osservato, misurato a passi e bracciate e infine raccontato per i lettori della Stampa. Dal Libano alla Somalia, dalle Falkland al Golfo, dall’Irlanda all’Afghanistan, al deserto iracheno, alla Libia del dopo Gheddafi.

E anche il suo personale e drammatico conflitto è diventato un racconto, quello contro il cancro, che alla fine l’ha sconfitto. Ma che guerra, quante battaglie in questi tredici anni, combattute con la ragione e la volontà. E l’illusione di aver vinto, ma anche questa appartiene alla ragione, o all’elaborazione di una difesa necessaria per vivere. Così aveva scritto lui stesso, tre anni fa, nel libro dedicato alla malattia: «Guerra o tumore sono la stessa cosa, devi averne paura ma anche devi saperci lottare per salvare la pelle. E quello che conta, soprattutto, è la testa, la volontà, la capacità di ricominciare senza darsi sconfitti e nuotare fino a 55 vasche o anche più».

Quelle «vasche» erano diventate titolo del suo racconto (pubblicato da Rizzoli nel 2015) e paradigma della volontà di vivere, dopo l’intervento chirurgico, durante la chemio e tutto l’alterno corredo di terapie e stati d’animo che si accompagnano e si susseguono in queste battaglie.

Ma in che cosa era «speciale» il lavoro da inviato di Mimmo? In quella che è - o dovrebbe essere - la normalità della professione di giornalista, che nella sua essenza si riduce a essere un testimone di avvenimenti per conto del lettore. Si può esserlo nell’angolo più sperduto della Terra o nella periferia della propria città. Quello che conta è il modo in cui si guardano i fatti e si ascoltano i protagonisti di quei fatti. Conta avvicinarsi il più possibile a essi, immergervisi, andarci senza pregiudizi, che non vuol dire senza giudizio, e cioè ben informati di che cosa si sta raccontando e del perché. L’obiettività, nel giornalismo, è un mito astratto; l’onestà del racconto è invece un dovere di cui chiedere conto.

Ryszard Kapuscinski, un altro grande «speciale» tra gli inviati, polacco e giramondo, ha costruito la sua memoria professionale sul detto che «il cinico non è adatto a questo mestiere». Ed è una definizione che si calca perfettamente nella biografia di Mimmo Cándito. Nessun sentimento gli era più estraneo del cinismo. Anche l’osservazione della morte e la sua elaborazione appartenevano alla sua quota di professionalità. Vivere e condividere le circostanze più atroci, come una strage di bambini per effetto di armi chimiche in un quartiere di Damasco, o lo «spettacolo» della lapidazione di un’adultera allo stadio di Kabul.

Per far bene tutto questo ci vuole un candore del tutto speciale, come può essere quello di uno che aveva avuto in sorte di chiamarsi Cándito e sembrava un hidalgo fuori del tempo, con un fisico e una pelle, persino, che appariva la corazza più appropriata per uno che doveva attraversare il pianeta, scarponcini o sandali ai piedi, non importa, giacca a vento o una «candida» e mimetica djellabah indosso.

Nulla sembrava sproporzionato in Mimmo, perché tutto era già fuori di misura: la sua statura, la mole di giornali e di ritagli che accumulava prima di partire per un reportage, l’ambizione della meta, l’ostinazione nel cercare e ricercare un testimone, nel verificare una fonte, la generosità con i colleghi, l’incapacità di cedere a facili compromessi per strappare un titolo in prima pagina.

Anche quel vezzo hemingwayano nella scrittura apparteneva a un’etica giornalistica che rovescia il luogo comune redazionale: non è la verità a rovinare una bella storia, semmai il contrario. L’esercizio retorico diventa stucchevole quando ripetuto, superficiale, gratuito: letteratura senza letteratura. Nei reportage di Mimmo ogni immagine invece si giustificava sul fondo del lavoro di ricerca che l’aveva germinata, plasticamente aderente alle notizie, rifletteva come uno specchio lo stato d’animo con cui lui guardava a quei fatti.

Reporter di guerra, è stato il suo lavoro e cioè la sua vita, era la sua anima, negli ultimi anni trasmessa ai ragazzi dell’università di Torino, alla guida della sezione italiana di «Reporters sans frontières» e anche nella passione (non hobby) della lettura che lo aveva portato a dirigere il mensile di libri e letteratura L’Indice.

Ma la seconda guerra del Golfo aveva cambiato il suo sguardo. La prevalenza di informazione raccolta su Internet, per lui che nel ’91 aveva respirato il fumo avvelenato dalle bombe sui pozzi di petrolio nel deserto tra Kuwait e Iraq, rappresentava un’amara eresia.

Gli inviati ci sono ancora ed esisteranno sempre, ma per essere «speciali» ci vuole il coraggio e l’umanità di Mimmo Cándito. È stato un privilegio per noi lavorare con lui. E per i lettori della Stampa leggere i suoi articoli.

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