«Non abbiamo ancora assimilato la grande novità culturale del Concilio Ecumenico Vaticano II... Pochi si rendono conto del fatto che la modernità vive una crisi drammatica e la Chiesa ha il compito oggi di salvare la modernità ovvero anche di indicare il cammino verso un’altra modernità». E gli atenei cattolici, che hanno un grande potenziale, corrono un rischio «grande», quello «della autoreferenzialità». Lo afferma il professor Rocco Buttiglione, in questa intervista con Vatican Insider a commento di “Veritatis gaudiumˮ, il recente documento di Papa Francesco.

Il Papa con il nuovo documento chiede una rivoluzione culturale negli atenei della Chiesa. In cosa consiste, secondo lei?

«Prima di tutto vorrei proporre una riflessione sul titolo di questo documento: Veritatis Gaudium. Unisce strettamente il tema del pontificato di san Giovanni Paolo II (la verità) con quello del pontificato di Papa Francesco (la gioia). La verità non ha prima di tutto la funzione di condannare chi è nell’errore ma quella di portare la gioia nel cuore di chi vive nella verità e l’argomento umanamente più convincente a favore della verità è la gioia che trabocca dalla vita dei suoi fedeli. Pensate come un sarebbe diverso il mondo se la gente, guardando alla vita della Chiesa dicesse: “guarda come si amano! Anche io vorrei essere capace di amare così! Anche io vorrei essere amato così!”. L’amore, è bene precisarlo, deve essere vero. Amare è aiutare l’amico nel suo cammino verso la verità, non è compiacerlo nelle illusioni che si fa intorno a sé stesso. Non c’è amore senza verità. Non c’è però neppure verità senza amore».

 

È per questo che il Papa propone, tra i criteri fondamentali, anche il dialogo a tutto campo, come “esigenza intrinseca per fare esperienza comunitaria della gioia della verità e per approfondirne il significato e le implicazioni pratiche”? 

«Mi sembra che la prima rivoluzione che il Santo Padre propone sia proprio questa: mettere al centro della ricerca e dell’insegnamento la unità della verità e dell’amore. Questa unità non è prima di tutto una teoria ma la persona di Gesù Cristo che unisce in sé la legge e la misericordia. La cultura in generale è una riflessione sistematica e critica sulla esperienza. Il compito delle università pontificie è quello di svolgere una riflessione sistematica e critica sull’avvenimento di Cristo che si fa esperienza per l’uomo attraverso la vita della Chiesa. Non si tratta di interpretare diversamente il mondo, la comune esperienza umana. Si tratta di interpretare un altro mondo, un mondo trasformato dalla presenza della grazia. Questo “altro mondo” non è però solo un altro mondo. È anche la verità di “questo mondo”, l’oggetto del suo desiderio più profondo e più segreto, il compimento a cui esso aspira. Questo genera una molteplicità di tensioni». 

Può fare qualche esempio? A che “tensioniˮ si riferisce? 

«Ne nomino alcune. La tensione fra una teologia che elabora la memoria vivente dell’origine e una teologia che riflette sull’avvenimento presente della fede. L’avvenimento di Cristo avviene una sola volta nella storia del mondo. Esso tuttavia si ripete continuamente nella vita della Chiesa attraverso i sacramenti e i santi (i discepoli) che lo fanno rivivere. La Chiesa delle origini vive nella tensione fra Giacomo (che conserva la memoria dell’avvenimento unico ed irripetibile) e Paolo (che reca la testimonianza dell’avvenimento presente, di ciò che lo Spirito sta operando fra i gentili). Non c’è teologia viva senza il dialogo costante di teologia sistematica e teologia pastorale. La tensione fra la teologia come tale e l’insieme delle scienze attraverso le quali questo mondo interpreta sé stesso. Qui credo che ci siano due grandi rotture sulle quali non vi è stata ancora una sufficiente riflessione». 

Quali sono, secondo lei queste fratture?

«Una è la rottura che riguarda l’essenza stessa della scienza moderna. Il positivismo ci aveva abituati a pensare che la scienza ci offrisse una verità definitiva, alternativa alla verità religiosa. Oggi sappiamo che la scienza ci presenta un modello di comprensione della realtà che è sempre più povero di determinazioni che non la realtà stessa e che, per di più, è mutevole nel tempo. Essa ci introduce nel mistero della creazione ma non ne svela il segreto. La seconda riguarda il fatto che la scienza (soprattutto le scienze umane) non è neutra. A essa si accompagna inevitabilmente un’ideologia degli scienziati (di alcuni di essi) che tenta di trasformare la scienza (per sua natura aperta) in una interpretazione compiuta della realtà, in una concezione del mondo. È compito della filosofia e della teologia ricomporre i risultati delle scienze organizzandoli intorno a un fine pratico che è il bene dell’uomo. Questo è qualcosa di più della semplice interdisciplinarietà. Le scienze dialogano fra loro nel linguaggio della filosofia dell’uomo, dell’antropologia. In modo particolare la dottrina sociale cristiana ha il compito di costruire una teoria critica della società che da un lato purifichi dai loro presupposti ideologici i risultati delle scienze umane e dall’altro le chiami tutte a collaborare alla ricerca concreta del vero bene per l’uomo. La teologia e le scienze ecclesiastiche in genere devono usare i risultati ed i metodi delle scienze ma devono rettificarli continuamente per liberarli da presupposti ideologici. Per fare questo devono partire dalla esperienza della fede viva. Per condurre questo dialogo sull’uomo con le scienze naturali ed umane anche le scienze ecclesiastiche devono essere consapevoli della propria fragilità. La nostra fede vive mescolata alla povertà della nostra umanità sottomessa alle conseguenze del peccato originale e la rettificazione metodologica a cui dobbiamo e vogliamo sottoporre le scienze dobbiamo applicarla anche a noi stessi. Il Papa ci parla spesso di una “teologia in ginocchio” o di una “teologia pregata”. Ciò che protegge la fede dal rischio di trasformarsi in una ideologia è la consapevolezza del fatto che tutti i concetti con i quali cerchiamo di esprimere la esperienza di “Dio in mezzo a noi” sono superati infinitamente dalla realtà della sua Presenza. Non a caso san Tommaso alla fine della sua vita disse a Reginaldo che tutta la sua opera non era altro che paglia davanti alla presenza del volto di Dio. Ma il Crocefisso disse: “bene scripsisti de me Thoma” (Bene hai scritto su di me Tommaso)». 

Nel proemio del documento Francesco afferma che «non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare» la crisi che stiamo vivendo. Che cosa significa?

«Non abbiamo ancora assimilato la grande novità culturale del Concilio Ecumenico Vaticano II e continuiamo a dilaniarci fra false alternative. Alcuni pensano di dover ancora combattere una battaglia contro la modernità che sentono come una minaccia. Altri pensano che la Chiesa debba adeguarsi ad una modernità vissuta come una speranza e la soluzione di tutti i problemi. Pochi si rendono conto del fatto che la modernità vive una crisi drammatica e la Chiesa ha il compito oggi di salvare la modernità ovvero anche di indicare il cammino verso un’altra modernità. Tutti i valori della modernità, affermati senza Dio o contro Dio, si capovolgono nel loro contrario. Bisogna correggere la modernità per salvarla e bisogna parlare ad un uomo postmoderno che minaccia di cadere in una nuova barbarie tecnologica. Non ci siamo ancora resi conto compiutamente del fatto che il mondo di domani è un mondo in cui il peso dell’Europa (e degli Stati Uniti) diminuisce, quello dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina aumenta. Diminuisce il loro peso demografico, diminuisce il loro peso economico e diminuisce il loro peso culturale, quasi metà dei cattolici vive in America Latina. La Chiesa registra in Africa ed in Asia una espansione missionaria senza precedenti. Questi continenti non sono più convinti che l’Europa sia l’avanguardia della cultura mondiale. In Europa cresce l’incredulità. Nel resto del mondo cresce la religione (e cresce la Chiesa Cattolica). In questo c’è del buono e ci sono dei rischi. Come trasmettere ai popoli nuovi l’eredità positiva della cultura (e della teologia) europea incoraggiando contemporaneamente a ripensare in modo missionario la fede a partire dalla cultura e dalla esperienza di vita dei loro popoli? E come imparare, noi europei, dalla fede viva di questi popoli per ravvivare la nostra, talvolta un po’ spenta nella secolarizzazione ottusa delle nostre società?».

Le sembra che le università legate alla Chiesa rappresentino un “laboratorio culturale”? 

«Potenzialmente certamente lo sono. Circa 3000 circoscrizioni ecclesiastiche (tante ve ne sono nel mondo) inviano a Roma ogni anni i loro giovani migliori, spesso giovani sacerdoti che hanno già avuto rilevanti responsabilità pastorali. Tra di loro vi sono i futuri vescovi, i futuri cardinali, i futuri papi. Negli anni di studio si creano amicizie che poi durano tutta la vita, si educa una classe dirigente mondiale di cui c’è tanto bisogno nella epoca della globalizzazione. C’è la possibilità di un insegnamento che tenga conto di tante prospettive diverse e le metta a confronto. È questo un crogiolo privilegiato in cui può nascere la cultura all’altezza della crisi che il mondo sta vivendo. Solo in Italia abbiamo almeno una trentina di università pontificie ed istituzioni assimilabili che rappresentano tutte le grandi tradizioni culturali e spirituali che hanno alimentato la vita delle Chiesa e i carismi che la hanno nutrita. Il livello medio dell’insegnamento è buono e vi sono picchi non rari di eccellenza. I talenti insomma ci sono. Possiamo dire che li stiamo trafficando con la necessaria decisione e il necessario coraggio? Su questo invece è lecito avere dei dubbi. Perché possano nascere le grandi ipotesi culturali delle quali abbiamo bisogno è necessario un dialogo molto più intenso fra le diverse istituzioni, una collaborazione più fraterna per mettere in comune, nella salvaguardia e nel rispetto dei diversi carismi, le ricchezze di cui ciascuno dispone, uno sforzo per mettersi in rete con altre istituzioni educative similari in tutto il mondo e per incrementare lo scambio di risultati ed ipotesi di ricerca con le istituzioni accademiche “laiche”. C’è poi tutto il campo enorme del rapporto da costruire con la pastorale nelle università “laiche” per sostenere l’esperienza di fede di chi studia ed insegna in tali università oltre che per imparare da loro quanto in tale esperienza hanno appreso ed elaborato».

Non crede che gli atenei della Chiesa rischino di conformarsi ai “vizi” del mondo universitario? Come si torna ad essere una fucina di leadership in grado di immaginare il futuro?

«Il rischio c’è ed è grande. È, in fondo, quello della autoreferenzialità. Certo: abbiamo il dovere di assicurare agli studenti il massimo livello scientifico. Tuttavia il nostro compito non si esaurisce in questo. Dalla autoreferenzialità salva una esperienza di Chiesa viva che ha tre pilastri. Il primo è la fedeltà al magistero. Oggi tutti pongono il loro criterio di verità in se stessi, in quello che ciascuno pensa, nella propria opinione. Il primo criterio del pensare cristiano è invece il lasciarsi mettere in crisi dalla parola di Qualcuno che mi conosce più a fondo di quanto io conosca me stesso e mi ama più di quanto io ami me stesso. Il magistero non è un elemento esterno ed estraneo alla mia coscienza che le si impone dall’esterno. È, piuttosto, un elemento interno alla mia coscienza. Il giudizio nasce nel dialogo con il magistero. 

Il secondo è l’immanenza alla vita di una comunità cristiana concreta, in cui c’è la possibilità di insegnare e di imparare ed anche quella di essere corretti. La scienza non è tutto, essa è inevitabilmente e necessariamente astratta. Essa ha bisogno di incontrarsi con la sapienza che legge il caso particolare e il modo in cui lo Spirito opera concretamente nelle situazioni della vita. Scientiasapientia devono continuamente illuminarsi l’una con l’altra. Il terzo è l’università stessa come comunità di vita, il dialogo amichevole e fraterno con gli altri docenti e con gli studenti».

Il documento papale riguarda le università ecclesiastiche e dunque, a rigor di norma, non tutte le università cattoliche. Quel preambolo, in linea di principio e come suggerimento, vale anche per gli atenei che, pur non essendo diretta emanazione della autorità ecclesiastica, sono legati alla tradizione cattolica? 

«A me sembra che, in un certo senso, il preambolo riguardi tutte le università, e non solo quelle cattoliche. Bisogna mettere al centro lo studente. Qual’è il fine dell’università? Educare uomini che sappiano pensare e quindi educare il metodo del pensiero. Insegnare a leggere nel proprio cuore le evidenze logiche ed etiche con le quali Dio ci pone nel mondo. Imparare a confrontare tutto ciò che ci accade, tutto ciò che ci viene detto, tutta l’informazione accessibile con queste evidenze e ordinarla rispetto alle esigenze profonde del nostro cuore che ci sono date insieme con le evidenze etiche e morali. Quale la differenza specifica di una università “cattolica”? L’incontro con Cristo nei sacramenti e nella vita della Chiesa illumina le nostre certezze e le nostre esigenze originarie e diventa l’ipotesi fondamentale di senso con l’aiuto della quale affrontiamo il paragone della vita. La vita diventa così un processo infinito di verifica e di apprendimento in cui la fede matura insieme con la vita».

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