Breve la vita infelice di Evariste Galois. Nella Francia di Luigi Filippo è stato un genio non compreso e persino vilipeso della matematica, un repubblicano che nei moti parigini del 1830 brindò al re agitando per aria un coltello e perciò finì in prigione. Galois è stato anche un passionale che per motivi mai chiariti, forse per difendere l’onore di una donna o per un diverbio politico, fu sfidato a duello e ucciso con un colpo di pistola allo stomaco. Era il 30 maggio 1832. Evariste aveva soltanto 20 anni. Nella notte anteriore al duello, “vedendo” la propria morte, scrisse una lunga lettera all’amico Auguste Chevalier: trenta pagine che si rivelarono un compendio di vita e di lavoro scientifico, un impaziente “résumé” dominato dalla frase “non ho tempo”.

Forse non occorre altro per ottenere il profilo di un temperamento quanto mai romantico, che non per caso affascinò i posteri, sollecitò biografie e ispirò film. Negli anni ’60 Francesco Molè scrisse su di lui un dramma che andò in scena con la regia di Ruggero Jacobbi e l’interpretazione di Tomas Milian. Oggi si misurano con “Galois” il talento letterario di Paolo Giordano e quello teatrale di Fabrizio Falco.

Romanziere dal successo fulmineo con “La solitudine dei numeri primi”, Giordano si pone dinanzi al suo personaggio come per rubarne i succhi vitali. Ripercorre con esatta precisione gli sviluppi di un metodo algebrico rivoluzionario, sonda un animo travagliato, si mette sulla sua scia senza temere di risultare didascalico e senza pensare che l’eleganza narrativa può prevaricare l’efficacia teatrale.

Nel suo monologo ci racconta come Evariste sia stato bocciato per due volte all’esame di ammissione all’Ecole polytechnique perché considerava troppo banali quegli esercizi e si rifiutava di risolverli e anzi, esasperato dalle insistenze dell’esaminatore, gli lanciò addosso il cancellino che veniva utilizzato per ripulire la lavagna. Ci pone dinanzi al capitolo drammatico dei rapporti di Galois con i matematici suoi contemporanei, i quali avrebbero dovuto accogliere e pubblicare le sue ricerche, ma poi, per i motivi più diversi, anche per banale distrazione, si sottrassero all’impegno provocando nel ragazzo una frustrazione e un nichilismo che forse avranno un ruolo nella tragica conclusione della sua vita.

A questo punto verrebbe da dire che affrontare il personaggio di Galois è come maneggiare carbone ardente. Ma, ormai lo sappiamo, Fabrizio Falco non ha paura di bruciarsi le dita. Regista di se stesso e attore non ancora trentenne, Falco dimostra di prediligere un teatro più di contenuti che di chiacchiera. Qualcuno ricorderà che nella scorsa stagione, ancora al Gobetti e sempre per lo Stabile di Torino, Falco ha offerto una intensa interpretazione del “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani”. Con quel suo spettacolo mostrava come dagli anni di Giacomo Leopardi a oggi le “scostumatezze” italiche rivelino un agghiacciante senso di ripetitività, addirittura di immortalità.

In “Galois” è sempre immerso in un clima passionale, divorato da una febbre romantica oscillante tra amore e morte. Si muove su una pedana sopra la quale appaiono intagliati numeri, formule e assi geometrici, dialoga con il silente Francesco Marino, ma in realtà insegue il flusso pazzesco delle proprie passioni fino al punto di rottura che lo travolgerà.

Al teatro Gobetti di Torino fino a domenica 15 ottobre

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