«E io dico che mi piace la parola amen / perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra / e di pietà dentro il silenzio / ma io non la metterei la parola amen / perché non ho nessuna pietà di voi / perché ho soltanto i miei occhi nei vostri». Lo scriveva Pierluigi Cappello in Mandate a dire all’imperatore, ora nei volumi di Azzurro elementare e Stato di quiete pubblicati da Rizzoli (con una nota di Jovanotti). Aveva come ogni poeta vero l’ambizione di parlare a tutti, ma non era in cerca di un facile pubblico. Anzi, nel suo sorridente - e stoico - isolamento, si considerava un «vasaio», un artigiano che cerca nei paesaggi («E c’è che vorrei il cielo elementare / azzurro come i mari degli atlanti») quella potenza e dolcezza che si rivela solo a uno sguardo speciale, inatteso e definitivo.

Si è spento ieri a Cassacco (Udine). Cinquant’anni, la vita segnata dalla lotta contro una grave malattia, condotta per di più in carrozzina, dopo un incidente nell’83. Molto amato, simbolo, anche nel bilinguismo della sua terra, a partire dall’inizio del Duemila ha ottenuto molti riconoscimenti, dal Viareggio al premio dell’Accademia dei Lincei alla laurea honoris causa dell’Università di Udine; e anche, date le precarie condizione di vita, la legge Bacchelli che tre anni fa gli permise di abbandonare il prefabbricato, risalente al terremoto del 1976, dove aveva sempre vissuto. È stato un poeta della fermezza.

Francesca Archibugi gli ha dedicato un film, Parole povere. Ma attenzione all’aggettivo. Nella poesia e nella vita di Cappello c’è un tentativo dolcissimo e straziante di rispondere un’antica domanda (di Hölderlin): «Perché i poeti, nel tempo della povertà?». Che, va da sé, ci riguarda tutti.

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