«Steph Curry? Io l’avrei limitato. Sarebbe stato complicato, ma avrei saputo come fare». A dirlo è uno dei pochi in grado di essere creduti: Gary Payton, infatti, si è guadagnato l’ingresso nella Hall of Fame grazie alle doti difensive, alla base di una carriera da uomo-franchigia a Seattle (portata alle Finali Nba nel 1996) e da regista titolare di Los Angeles Lakers (finalisti nel 2004) e Miami (campioni nel 2006). Il 49enne californiano è stato l’ospite d’onore della mostra Nba Overtime di Milano, al Samsung District di via Mike Bongiorno 9, un evento aperto per fino al prossimo weekend che racconta la storia delle 30 squadre della Lega con l’obiettivo di trasformare il basket in un’espressione d’arte futurista. E per Payton, il basket non è soltanto il passato, ma è ancora una questione di famiglia.

Come vede la carriera di suo figlio Gary II, dopo il primo anno con i Milwaukee Bucks?

«Sono felice che giochi per un coach, Jason Kidd, che conosco sin da quando ero adolescente, io e Jason veniamo dalla stessa area, la Baia di San Francisco-Oakland, ed è stato un avversario tosto in 13 delle mie 17 stagioni Nba».

Quali consigli dà a suo figlio: fa come suo padre Al, che con lei era sempre durissimo e le chiedeva di essere più grintoso?

«Sì, esatto (sorride). Gary deve essere ancora più tosto, ma sotto la guida di Kidd lo diventerà, credo che mio figlio sarà un giocatore di successo».

Lei era noto per le doti difensive ma anche per il “trash talk”: in campo, poche lingue erano più taglienti della sua.

«E’ un marchio di fabbrica per chi cresce a Oakland. E’ un modo per caricarsi, oltre che per distruggere mentalmente gli avversari».

Chi è il Gary Payton odierno, che unisce la lingua lunga alle doti difensive?

«Draymond Green, che infatti è uno dei perni dei Golden State Warriors. Anche se ai miei tempi le cose erano differenti».

Cosa intende?

«Io usavo il trash talk nei confronti di tutti: avversari, tifosi, persino gli arbitri. Oggi le regole lo impediscono, chi parla viene immediatamente punito con un fallo tecnico».

Lei ha vinto il titolo a Miami, ma resta un simbolo di Seattle: la città della pioggia tornerà nella Nba?

«Non so quando, ma prima o poi accadrà. La Nba tornerà a Seattle, tante persone stanno lavorando perché ciò avvenga, il presupposto sarà la costruzione di una nuova arena che sia funzionale. E’ una situazione simile a quella che si vive nel football, con la Nfl che sbarcherà a Las Vegas fra meno di tre anni».

Lei ha dato vita a duelli infuocati con Michael Jordan: oggi come se la caverebbe con Steph Curry?

«E’ difficile paragonare giocatori di generazioni differenti, spesso mi chiedono se sia meglio Jordan oppure James, ma non è possibile farlo, soprattutto ora che la carriera di LeBron è in corso. Le regole odierne favoriscono Curry: non si possono toccare gli avversari più di tanto. Contro di lui sarebbe stata dura per me, gli avrei reso la vita difficile».

Come?

«Facile: impedendogli di ricevere il pallone. E’ la parte principale del lavoro: se al contrario Steph riceve palla, diventa difficile fermare uno dei migliori tiratori di sempre».

I commenti dei lettori