I grandi interpreti sono quelli che ci rivelano la verità di ciò che interpretano. Con lui, mi capitò al primo Turco in Italia della mia vita. Bastò il modo con cui si toglieva il turbante e lo scagliava a terra dopo il Quintetto del secondo atto per comunicare tutto il dramma di un personaggio buffo come don Geronio. Di colpo, quel che si era letto sui manuali, che il Turco è la commedia più «commedia» di Rossini, quella più mozartiana e blablabla, diventava sguardo e suono, psicologia e teatro. Diventava verità. Con i veri maestri, basta un gesto, anche minimo. E’ quell’«infinitamente piccolo» dei grandi artisti di cui parla Stendhal.

Enzo Dara è morto venerdì notte. Era nato a Mantova nel 1938, aveva debuttato nel ‘60 e pareva destinato a un’onorevole carriera di bassotto, compimario o poco più. Nel ‘67, il suo primo don Bartolo del Barbiere di Siviglia lo rivelò al pubblico e a sé stesso: era nato il più grande basso buffo del Dopoguerra. In effetti, «A un dottor della mia sorte» così non l’aveva mai cantata nessuno. Fu l’inizio della sua galleria di «don»: don Bartolo, don Magnifico, don Geronio, don Pasquale, don Annibale Pistacchio, don Gregorio (L’ajo nell’imbarazzo, a Torino: immenso). E Taddeo, Geronimo, Dulcamara, Sulpice, l’«altro» Bartolo, quello di Paisiello, Gaudenzio, Macrobio, Dandini. E perfino uno dei rarissimi Sagrestani della Tosca che si potessero ascoltare e vedere senza arrabbiarsi.

Ebbe anche la fortuna di essere l’uomo giusto al momento giusto. Iniziava la Rossini-renaissance, e c’era bisogno di voci più leggere e più agili, più precise come musicalità e più castigate come gusto. Come tutti i grandi, Dara piaceva ai grandi. Abbado non dirigeva un Rossini senza di lui (anche perché Dara era il suo pusher di tortelli di zucca mantovani, che Claudio adorava) e Jean-Pierre Ponnelle, all’ennesima ripresa dell’Italiana in Algeri, gli disegnò un costume nuovo, vestendolo da Peter Ustinov-Poirot in Assassinio sul Nilo, regalo di cui Enzo era fierissimo. Nell’84 fu Trombonok nella prima moderna del Viaggio a Reims. E ogni sera di quel mitico Abbado-Ronconi, a Pesaro, alla Scala, a Vienna, a Tokyo, a Ferrara, a casa di Dio, ogni sera regalava un’invenzione, un’idea, una gag diversa.

Faceva ridere, certo. I sillabati, questi rap stralunati di Rossini e di Donizetti, erano una vertigine orgiastica di musica, di allegria, di divertimento, di gioia. Ma le sue non erano macchiette, erano personaggi. E dietro la maschera trovava e ti rivelava l’uomo. Nel Don Pasquale, al duetto con Norina, attaccava «E’ finita, don Pasquale» e capivi che la commedia era finita, e cominciava il dramma di un povero vecchio. Bastava pochissimo: un’occhiata in tralice da sopra gli immancabili occhialini, una frasetta che svaporava nell’aria. Nonostante la quintalata, era di una leggerezza calviniana. E poi l’eleganza, il senso della misura, la classe. Dara era toccato dalla Grazia come solo i grandi artisti possono essere, e ci rendono grati che siano esistiti.

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