Amedy Coulibaly aveva comprato le armi per l’assalto all’Hyper Cacher di Parigi nel gennaio del 2015 a Charleroi, comune a sud di Bruxelles. Il commando entrato in azione il 13 novembre dello stesso anno nei café parigini e al Bataclan aveva preparato il piano d’attacco nei covi di Molenbeek, municipalità bruxellese diventata da quel giorno simbolo della jihad in Europa. Anche perché è qui, al 79 della rue des Quatres-Vents, che il 18 marzo del 2016 è stato catturato Salah Abdeslam, unico sopravvissuto delle stragi di novembre nella Ville Lumière. Un arresto che è considerato dagli inquirenti belgi la causa principale degli attentati nell’aeroporto di Zaventem e nella metro di Maelbeek. Perché l’obiettivo dei cinque terroristi in azione il 22 marzo non era Bruxelles. Quello è stato un ripiego: anche loro volevano colpire la Francia.

Le prime indiscrezioni filtrate dai servizi dopo la sparatoria degli Champs-Elysées - ancora senza una conferma ufficiale - dicono che anche questa volta il punto di partenza dell’autostrada del terrore che arriva a Parigi va cercato in Belgio. Un Paese che in questi anni si è dimostrato un nido in cui sono stati «allevati» centinaia di terroristi, potenziali o reali. È lo Stato europeo con la percentuale più alta di foreign fighters, ma negli ultimi due anni le partenze per la Siria si sono interrotte. E la Francia - Parigi in particolare - si è trasformata nel campo di battaglia preferito, più della «patria» belga. Un confine, nell’area Schengen, praticamente inesistente, facilissimo da oltrepassare schivando i controlli persino per Salah Abdeslam. Non solo nel suo viaggio di andata verso Parigi, accompagnato da Mohamed Abrini, ma anche in quello di ritorno. Quello compiuto con le mani sporche di sangue.

Negli archivi dell’antiterrorismo europeo c’è una città segnata con un cerchio. È Verviers, dove nel gennaio del 2015 fu smantellata quella che viene considerata la «cellula madre» dei grandi attentati che hanno colpito le capitali di Francia e Belgio. In una palazzina di rue de la Colline, al numero 322, c’era il covo di Abdelhamid Abaaoud e dei suoi complici. Ma lui, la mente degli attentati di Parigi del 13 novembre, ucciso in un blitz a Saint Denis cinque giorni dopo, in quell’appartamento al piano terra non c’era quella notte.

Durante l’incursione delle teste di cuoio morirono due dei suoi «uomini», un terzo cercò di fuggire dalla finestra ma fu catturato. La rete fu smantellata, ma Abaaoud riuscì a ricostruirla tessendola dalla Siria. È da quel lavoro sotterraneo che ha preso forma la cellula di Molenbeek dei fratelli Abdeslam e quella, gemella, che si era rifugiata nell’appartamento di rue Max Roos a Schaerbeek, dove i fratelli El Bakraoui e l’artificiere Najim Laachraoui avevano confezionato l’esplosivo per le bombe del 22 marzo.

Le indagini di questi mesi, aiutate dai files audio ritrovati in un computer gettato nella spazzatura poco distante da quell’appartamento e dalle rilevazioni di Mohamed Abrini (arrestato poche settimane dopo) hanno confermato agli inquirenti che l’attacco di Bruxelles non era il loro vero piano. Si è trattato di una reazione all’arresto di Abdeslam, che ha costretto il commando a cambiare programma e a entrare in azione subito. Senza attendere quello che era il loro vero obiettivo: gli Europei di calcio che si sono giocati in Francia la scorsa estate.

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