Un 24 Marzo, diciotto anni fa

Un 24 Marzo, diciotto anni fa

di Gianmarco Pisa

Ebbero inizio proprio il 24 Marzo, nel 1999, diciotto anni fa, i bombardamenti su Belgrado e sulla Jugoslavia dell’epoca, da parte degli Stati Uniti e della Alleanza Atlantica, la NATO. Fu il primo di 78 giorni di guerra, una guerra che ha rappresentato un vero e proprio “paradigma”, o, per dirla in altri termini, quella guerra senza la quale non si capirebbe il senso dell’espressione “guerra etno-politica”, che ci ha familiarizzato con quella mistificazione che è la “guerra umanitaria”, e che ha aperto le porte ad un “nuovo ordine mondiale” nel quale siamo, inaugurando una modalità di azione nuova, la stessa nella quale siamo ancora immersi, sebbene diversa dalla fine degli anni Novanta, e uno scenario inedito specie per chi, ancora negli anni Novanta, si illudeva di «dividendi della pace».

Ma ci ricordiamo del canovaccio ufficiale, le dichiarazioni ufficiali e le comunicazioni pubbliche, che presentarono la guerra, ne definirono il profilo, ne illustrarono i caratteri? Ovviamente, si tratta di un esercizio della memoria, non di una ricerca archivistica; ma chi vuole, può facilmente trovare tracce e riferimenti nella ricca messe mediatica del tempo: dichiarazioni di portavoce e capi di stato e di governo delle potenze interessate; comunicati stampa e conferenze stampa della più varia natura; prese di posizione di esponenti politici e riflessioni accorate di giornalisti ed opinionisti.

Massimo D’Alema, che, all’epoca, era a capo del governo che partecipò, nell’ambito della NATO, alla formazione delle decisioni che diedero corso ai bombardamenti, ha, in una intervista rilasciata dieci anni dopo (S. Cappellini, 2009: “La guerra che rifarei. D’Alema racconta”, Il riformista, 24 Marzo 2009), secondo quanto riportato, confermato che «bisognava mettere fine alle guerre balcaniche che avevano fatto 300 mila morti, fermare uno stillicidio di conflitti etnici religiosi che avevano insanguinato la regione. Le ragioni dell’intervento andavano al di là della vicenda specifica del Kosovo»; e ha ricordato inoltre che «l’Act Order, che è [...] il meccanismo previsto dalla Nato con il quale le forze armate dei singoli paesi vengono messe in allarme e a disposizione del comando generale, era stato già deliberato dal governo Prodi. Un fatto scarsamente considerato».

In Italia, e non solo in Italia, è la sinistra riformista, la cosiddetta socialdemocrazia, che porta le più pesanti responsabilità per quella guerra; sono stati troppo spesso esponenti della cosiddetta “sinistra ufficiale” a coltivare l’equivoco della guerra umanitaria ed alimentare la mistificazione con la quale si era inteso dare una parvenza di legittimità ad una guerra non solo ingiusta ma anche illegittima. Ancora D’Alema, nella stessa intervista, ricorda che, quanto all’iniziativa militare dell’Italia, non si votò né nel Consiglio dei Ministri, né in Parlamento. In pratica, si potrebbe dire, parafrasando Ellul, una guerra “per forza di cose”. Sul piano internazionale, come è noto, le Nazioni Unite non hanno mai approvato o legittimato l’intervento militare, né è stata varata alcuna risoluzione o consenso.

Torniamo al punto: dichiarare “umanitaria” la guerra serviva solo ad alterare la realtà ed era funzionale al progetto di una aggressione. Non perché non vi fossero stati, in Kosovo, episodi significativi di violazioni e repressione che peraltro, solo con una arbitraria forzatura, come spesso succede, sarebbero ascrivibili ad una sola delle parti coinvolte. Bensì, perché occorreva “creare” un clima e “preparare” le opinioni pubbliche. Nella comunicazione alla stampa di Javier Solana, allora segretario generale della Alleanza Atlantica, anche lui proveniente dalle file della socialdemocrazia (il partito socialista spagnolo, in questo caso), si fa continuo riferimento (“L’ordine della Nato: «Bombardate la Serbia»”, la Repubblica, 24 Marzo 1999) a «evitare che vengano commessi altri massacri nel Kosovo»; al fatto che «non si tratta di una dichiarazione di guerra al paese, bensì un atto di forza per costringere il governo jugoslavo a ricredersi sul suo rifiuto di trattare»; ancora al fatto che l’aggressione «serve a sostenere la ricerca della pace nel Kosovo» e, di conseguenza: «Abbiamo il dovere morale di farlo». Insomma, tutto il lugubre e mortificante, per la coscienza e per l’intelligenza, campionario del “fare la guerra per fare la pace” se non addirittura “umanitaria”.

Rispetto alla cosiddetta sinistra “ufficiale”, al ruolo delle forze euro-atlantiche e alla catastrofica distruttività di quella guerra, si è detto e si è scritto. Essa però ci dà anche qualche altra indicazione, a diciotto anni di distanza: sull’esigenza dei percorsi di prevenzione della violenza, a partire dal rispetto della autodeterminazione dei popoli e dei diritti umani, civili e politici, economici e sociali, culturali e universali, e di iniziative creative, non armate, di superamento dei conflitti. Nel tempo della crisi dell’unità europea, e della lacerazione della democrazia, forse è il caso di ripartire da qui.

 

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