Arrivano tredici miliardi di incentivi per le imprese. Bastano? «No, non bastano», risponde rapido Vincenzo Boccia, da quattro mesi alla guida di Confindustria. Ciò non toglie che il piano «Industria 4.0» del governo gli piaccia perché «è un primo passo verso un approccio di più ampio respiro per un paese, l’Italia, che ha ancora le patrimoniali sui fattori di produzione - come l’Imu sui capannoni - e un cuneo fiscale elevatissimo». Gli pare la base per «una politica selettiva che aiuti a orientare l’industria» e rifondarne il modello nel nome della competitività. Cita Mario Draghi, a questo punto, l’imprenditore salernitano: «Dobbiamo esser ambiziosi nei fini e pragmatici nei mezzi».

E’ arrivata la nota di aggiornamento al Def. C’è meno crescita e più deficit, però il team di Renzi non rinuncia alla nuova filosofia per l’impresa. Boccia incassa la promessa e ne delinea i benefici possibili. «Punta a una industria in cui valore aggiunto, alti investimenti e produttività abbiano una elevata intensità - concede -. Interviene sui fattori di competitività e non sui settori. Sottolinea che la ripresa non possa essere solo per alcuni, né noi possiamo trovare un alibi nel dire che la mancata crescita è solo colpa della politica. La crescita riguarda tutti, governo, imprese, sindacati e cittadini. Se deve essere una priorità, ognuno deve fare il suo».

La crescita è debole e il Paese porta ritardo...

«La situazione economica è delicata. È importante essere passati a indici positivi ma siamo ancora 8 punti di Pil al di sotto rispetto al 2007. Per il resto abbiamo perso anni, questo è vero. Quando il cancelliere Schröder avviò le sue riforme, il costo del lavoro in Italia e Germania era sullo stesso livello. Oggi, da noi, è il 30% più elevato. In 15 anni i tedeschi hanno compiuto un salto di produttività grazie a un’idea diventata politica fiscale. Schröder ha avviato lo scambio lavoro-produttività».

Il ministro Calenda vuol fare lo stesso. E’ possibile?

«Si, ma a patto di avviare una riforma, anche culturale, che ponga al centro di tutto la produttività: intervieni sui fattori dell’organizzazione e recuperi produttività a parità di investimenti».

Come funziona?

«Ad esempio si potrebbero detassare maggiormente i premi di produzione che sono oggetto dei contratti di secondo livello aziendale cosi da facilitare lo scambio lavoro produttività».

Con quali risultati?

«Davanti a un taglio della fiscalità sui premi di produzione, noi non potremmo fare finta di niente. Verrebbe alimentata una politica della domanda attraverso una politica di offerta, cioè di maggiore competitività. L’errore, in questo momento storico, sono le azioni sulla domanda che prescindano dal resto».

In tutto questo, quale ruolo si attende dal sindacato.

«E’ necessario affrontare le priorità insieme e stilare un elenco di punti: laddove c’è consenso, si chiude; sul resto, si litiga lealmente. Detto questo, vogliamo arrivare ad aprire un confronto “macro” partendo dalla visione industriale: dire cosa vogliamo per l’industria del futuro».

Qual è il metodo?

«Cominciamo con gli accordi più semplici. Poi affrontiamo quelli con divergenze più ampie ed evitiamo di interferire sui contratti che sono oggetto di confronto. Se noi aprissimo ora il dibattito sulla revisione del modello contrattuale, potremmo rallentare la chiusura dei meccanici, il che non è auspicabile».

L’azione del governo è limitata dagli impegni di risanamento presi con i partner europei. Che si fa?

«Una soluzione sarebbe quella di evitare di fissare tutta l’attenzione sui saldi di bilancio prescindendo dagli effetti sull’economia reale. E’ un elemento di metodo che ribalta il concetto dell’austerità e impone l’idea che la crescita è la precondizione della stabilità».

Sta invitando il governo a cercare, o a prendersi, nuovi margini di spesa rispetto ai patti europei?

«Deve prendere margini, questo sì, bilanciandoli però con un intervento organico di politica economica. Chiedere spazio per investire e sostenere la crescita per ridurre il deficit è un elemento di confronto utilizzabile in chiave europea. Serve un’agenda di medio termine per risolvere i problemi - deficit, debito e crescita - non richieste valutate anno dopo anno».

Dunque è d’accordo con Draghi quando dice che è più importante la composizione del bilancio che la sua dimensione?

«L’indicazione è chiarissima. I Paesi che, come la Germania, hanno un surplus, devono investire. Quelli che non ne hanno, come l’Italia, devono ristrutturare le voci di bilancio. In altre parole, è quello che diciamo noi. Tutti devono rispettare le regole, però le regole non devono essere dogmi. In America la politica economica del governo è coerente con la politica monetaria della Fed, sono entrambe espansive, così crescono il doppio dell’Europa. Da noi si uniscono una Bce espansiva e politiche economiche restrittive che rallentano il ciclo. E’ una doppia incoerenza impedisce il rimbalzo».

E’ utile il tono di sfida con cui Renzi si rivolge all’Ue?

«La tattica negoziale la lascio alla sensibilità del presidente. Sa lui come gestire un confronto che va aperto. Bisogna spingere l’Europa a fare un salto. Anche se sappiamo che, alla vigilia delle elezioni tedesche e francesi, l’idea di Europa che abbiamo non coincide con le tattiche elettorali dei singoli governi».

Confindustria ha chiesto ai suoi iscritti di votare “sì” al referendum del 4 dicembre. Che succede se vince il “no”?

«Noi appoggiamo il “si” perché la stabilità è la precondizione della crescita. Centrale anche il fattore temporale, è importante che il Senato debba approvare una legge in 40 giorni. Infine crediamo che questa riforma risolva i conflitti fra Stato e Regioni che complicano la vita alle imprese, spesso costrette a seguire venti politiche economiche e non una».

Un disastro se si afferma il no?

«Se perdesse il “si”, che crea le condizioni per il cambiamento, non succederebbe nulla. Eravamo preoccupati dal fatto che il premier avesse legato le sue dimissioni a una sconfitta referendaria per le conseguenze sulla percezione internazionale del Paese. Avrebbe sottolineato le difficoltà di favorire il cambiamento. E’ un errore pensare che sia un “sì” o “no” al governo. Si vota su un modello che porta ad una democrazia decidente. O per lo status quo. Questa è la verità».

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