Dalla piazza Saet Al-Bab Al-Faraj la strada comincia a salire subito dopo il check-point. Giusto di fronte all’Hotel Sheraton, vuoto, dove un tempo c’era il ghetto ebraico, ci sono le ultime case abitate, ad appena cinquecento metri dalla Moschea degli Omayyadi. I ribelli l’hanno trasformata in un fortino. Il minareto, uno dei più antichi al mondo, è andato distrutto. Le stradine strette, le case una addosso all’altra, sono però un buona protezione. I cecchini tirano più lontano, per fare da sbarramento ai tentativi dei militari. È un continuo alternarsi di colpi secchi e di botti sordi, quelli delle cannonate.

Dalle pareti sfondate di una vecchia fabbrichetta tessile si vede invece il minareto della moschea Al-Tahrir Gazi, nella Cittadella. È il punto che sovrasta tutto ed è in mano ai governativi. Devono tenerlo a ogni costo. Perdere la Cittadella è perdere Aleppo. Tutto intorno premono gli insorti. È il terreno più difficile per l’esercito. Raid e bombardamenti massicci non sono possibili. Qui è tutto patrimonio dell’Unesco. E i civili che non vogliono lasciare le loro case, da una parte e dall’altra, sono un ulteriore ostacolo. Hossam Kamaye, il proprietario del laboratorio tessile, mostra l’ala del palazzo, in pietra chiara, sbriciolato da un colpo dei ribelli. Una «jarraht ghas», bombola di gas riempita di esplosivo e lanciata con enormi mortai artigianali, i «cannoni dell’inferno».

I ribelli li hanno usati di nuovo ieri. All’alba, dopo una notte ritmata dai colpi dell’artiglieria, una raffica di raid aerei ha aperto la strada a una nuova offensiva governativa sul campo profughi di Handarat, quattro chilometri più a Nord. Gli insorti hanno reagito colpendo le postazioni dell’esercito nel quartieri adiacenti la città vecchia, come Al-Masharaqah. Un modo per togliere pressione sul fronte principale. L’aviazione ha allora preso di mira la zona di Al-Mushattiah e Al-Sakhanah. Enormi colonne di fumo si sono levate dagli edifici distrutti. E sotto le macerie, secondo gli attivisti dell’opposizione, sono rimaste almeno dodici vittime. Dalla fine dell’ultima tregua sono quasi duecento. Una situazione insostenibile per i circa 200 mila civili intrappolati nei quartieri Est. I delegati dell’Oms, riuniti in città, hanno chiesto di nuovo l’apertura di «corridori umanitari».

Difficile che trovino ascolto. La battaglia di Handarat è segnata. Almeno ne è convinto il generale Abu Ali Fathir. «L’abbiamo preso venerdì e riperso sabato – spiega –. Ma Al-Nusra si è dissanguata nel contrattacco, come questa estate a Ramouseh. Ormai è questione di ore».

Nell’ex campo palestinese non ci sono più civili e i bombardamenti a tappeto rendono impossibile tenere le posizioni. Gli aerei governativi hanno lanciato volantini ai combattenti. Promettono il perdono a chi si arrende e la possibilità di trasferirsi in altre zone della Siria in mano alla ribellione, come Idlib. La stessa strategia applicata nelle periferie di Damasco e Homs.

Handarat è importante perché si trova su un’altura e di lì i «cannoni dell’inferno» hanno fatto per anni un macello. La riconquista è parte di un nuovo piano lanciato alla fine dell’anno scorso. Invece di concentrarsi sul centro storico, i governativi hanno rosicchiato ai ribelli, pezzo per pezzo, i quartieri sulle colline. A luglio hanno preso quello di Bani Zeid che domina la strada del Castello, fino a pochi mesi fa l’unica via di rifornimento verso i quartieri orientali dei ribelli. Ora la strada del Castello e Bani Zaid sono in mano ai governativi. In piedi rimane solo lo scheletro dell’hotel Golden City. Il resto sono solo case accartocciate su se stesse. Piantate sulle macerie ci sono bandiere siriane e dei curdi dello Ypg, che hanno partecipato all’assalto.

Sul punto più alto c’è la casa dell’ex comandante ribelle Khaled Al-Hayani, ucciso in un raid. Era a capo della famigerata Fourqa Sittash, la Divisione Sedici, alleata di Al-Nusra. Youssef Brahim, uno dei pochi abitanti che non ha mai lasciato il quartiere perché con i suoi dieci figli non sapeva dove andare, racconta il regime del terrore. Lo stesso Al-Hayani trascinava con la sua auto, lungo le strade, i cadaveri delle «spie» giustiziate senza pietà. Anche sedersi sullo scalino davanti casa era pericoloso. «Un giorno hanno preso una ragazzina. Le hanno legato una gamba a una macchina e una a un’altra. Poi l’hanno squartata. E tutti dovevano guardare. Per non finire ammazzati».

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