Una delle scene più divertenti del classico romantico Love Actually è quando Sarah, una trentenne innamorata del suo collega da anni, riesce finalmente a portarlo nella sua camera da letto, ma poco prima che lui entri, riassesta la stanza e nasconde sotto il letto il suo orsacchiotto di peluche, per fare bella figura, e come per proteggere il peluche dal vedere quello che sta per succedere.

Questa non è forse la prima immagine che viene in mente di fronte al Bates Motel di Psycho - ricostruito da Cornelia Parker, esposto sopra il tetto del MET fino al 31 ottobre - ma in realtà l’orsacchiotto e il set, in cui Hitchcock ha immortalato una delle storie più complesse e inquietanti del cinema e della psicologia moderna, sono molto più connessi di quanto sembri.

Da piccoli infatti tutti abbiamo degli oggetti (transitional objects) su cui proiettiamo le nostre emozioni, o trasferiamo le paure. La coperta di Linus, piccoli comfort prima di andare a dormire. Non è detto che siano sempre dolci koala della Trudy, l’infanzia regala anche creature alla Tim Burton: bambole rattoppate, casette costruite un giorno e poi abbandonate alla polvere.

Non è superstizione o immedesimazione pura, piuttosto il processo di proiezione legato ai film o alle città dell’immaginario, dove ci sembra di essere già stati, ma anche ai luoghi dell’anima, come un casa in campagna, o un paese raccontato alla Spoon River.

L’idea di trasferire se stessi e la propria identità su qualcun altro è anche alla base del film di Hitchcock. In senso letterale. È l’idea di avere «un piede nella realtà e uno nella finzione» per rubare le parole all’inglese Parker, l’artista di Bates Motel - Transitional object.

Questa installazione va vista da davanti nello stesso modo in cui Hitchcock filmava, come un set teatrale. Un enorme giocattolo, ma che stranamente non stona, forse per l’eclettico panorama architettonico di Manhattan.

Quando il parco si colora di verde e sembra un mare infinito dall’alto, uno dei luoghi più belli da cui vedere la città è proprio il tetto del MET. Nonostante il museo sia la quintessenza del turismo stupisce che spesso molti turisti non salgano fin su.

Ma ormai nell’era post highline, il parco sospeso downtown, i tetti - che non servono più solo ad abbronzarsi al primo raggio di sole o fare barbeques il 4 luglio, - hanno ripreso il loro ruolo da giardini di Babilonia. E come la highline che nasce in omaggio alla ferrovia abbandonata, ai binari, al mito americano dei traveling hobos, ai cartelli come «Keep it wild», anche il Bates Motel non ripesca solo da Hitchcock ma da House By the Railroad di Edward Hopper e la classica cascina rossa.

Il Bates Motel entra a far parte della skyline, nei riflessi sui vetri, ma si eleva dall’effetto parco divertimenti, modello trenino degli Universal Studios e si avvicina a performance come Sleep no More, che ha avuto un grande impatto sui newyorkesi e qualche turista, un’esperienza di immedesimazione in cui ci si perde in un hotel durante il proibizionismo (al McKittrick Hotel).

Il MET tra l’altro non dista molto dai lavori in corso della 2nd ave subway, una metrò promessa, che non arriva mai, combattuta, rimandata e infine attesa come il Messia. Per ingannare l’attesa nei weekend, vengono allestite delle tende colorate come dei finti vagoni, dove giocano i bambini. La promessa di qualcosa di reale, che per ora rimane un’idea solo nel nostro immaginario.

Un po’ il contrario del Bates Motel, parte dei nostri sogni e incubi, un cliché come la coperta di Linus, eppure come dice Cornelia Parker «L’universo dei cliché è il luogo più sconosciuto».

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