«L’unica cosa che so è che adesso è là dentro. Ma è una settimana che non posso parlargli. Non ha fatto niente». Mehmet era un aspirante ufficiale che stava per ottenere la prima stella da sottotenente. L’unica colpa, spiega la madre Fatma, è aver frequentato lo stesso corso di molti gulenisti. Da allora Fatma, fazzoletto in testa e lungo pastrano grigio nonostante il caldo, passa le giornate nei giardini accanto al palazzo di giustizia di Ankara, l’Adalet Sarayi. Ha visto le foto dei soldati a torso nudo, con le mani legate dietro lo schiena: «Ci ho visto mio figlio», sospira.

I parenti degli arrestati non parlano volentieri. Temono ripercussioni. Fatih aspetta notizie del nipote, diciottenne. Un soldato semplice. La sua posizione è peggiore, perché è uno di quelli portati dagli ufficiali golpisti a bloccare le strade attorno al comando centrale della polizia. «Gli hanno detto che era una semplice esercitazione – spiega -. Non sembrava nulla di strano perché l’addestramento prevede due settimane di uscite notturne». Fatih, 68 anni, occhi celesti come la polo che indossa, è stato militare anche lui. «Quando i ragazzi erano in strada – continua – gli hanno detto che in realtà era un’operazione anti-terrorismo. Qualcuno ha esitato. Gli ufficiali li hanno minacciati: o andate avanti o vi spariamo. Hanno solo obbedito agli ordini, non sono terroristi».

Davanti all’Adalet Sarayi, ora tutto transennato, l’attesa si prolunga all’infinito. I quattro giorni di detenzione previsti dal codice prima di essere incriminati o rilasciati, sono di diventati otto con lo stato di emergenza, poi un mese. Il vice primo ministro Nurettin Canikli ha detto che gli arresti fatti finora sono «la punta dell’iceberg», altri ne seguiranno. E presto ci sarà un maxi-processo, «nel distretto di Sincan ad Ankara», ha annunciato il ministro della Giustizia, Bekir Bozdag, che ha garantito il «rispetto delle regole democratiche». Rassicurazioni che non convincono John Dalhuisen, direttore per l’Europa di Amnesty International: «Abbiamo informazioni credibili di pestaggi e stupri. È assolutamente fondamentale che le autorità turche consentano agli osservatori internazionali di incontrare tutti i detenuti».

Fra gli arrestati di ieri c’è anche primo rettore donna con il velo, Aysegul Sarac, per presunti legami con la «rete terrorista» di Gulen. «È un controgolpe che viene da lontano - denuncia Lami Ozgen, co-presidente del Kesk, il sindacato del pubblico impiego -. Già a gennaio il governo aveva emanato una circolare per tutti gli uffici pubblici. Intimava di classificare i dipendenti in categorie “sospette”. Gulenisti, appartenenti alle minoranze curde e alevi, gli iscritti ai partiti di sinistra, i kemalisti. Tutti. Così in due giorni hanno licenziato 16 mila insegnanti». Ozgen non crede alle teorie complottiste del «finto golpe». Guarda avanti ed è preoccupato. Molto. «Lo stato di emergenza già permette i licenziamenti di massa. Erdogan voleva arrivarci con una legge. Non gliela abbiamo fatta passare. Ma ora sarà impossibile mobilitare i lavoratori».

Nascosto tra gli studenti

Per qualcuno il clima è già quello. Tamir è un militante dell’organizzazione della sinistra radicale Kaldiraç. Da venerdì se ne sta nascosto in una «safe house» perché «i primi che arrestano siamo noi». Nel localino sulla Selanik Caddesi, mimetizzato fra gli studenti, si sente abbastanza sicuro. Neanche lui crede al «finto golpe» ma è convinto che i golpisti di Gulen avessero il consenso degli Stati Uniti. Più ancora della polizia teme le «bande dell’Akp» che fanno le ronde nel suo quartiere alevita, Tuzluçayir. «Non ci difenderà nessuno, né in Turchia, né in Europa. Ma stiamo organizzando i comitati di autodifesa». Roba da guerra civile. «Siamo all’inizio, tutta la Turchia ormai è come il Kurdistan».

Uno scenario che non convince Coskun Musluk, ricercatore in Scienze politiche alla Middle East Technical University, di idee politiche opposte ma altrettanto in ansia, anche perché si è già fatto un anno di galera senza processo con vaghe accuse di «cospirazione». Kemalista convinto, Musluk non crede che il presidente Recep Tayyip Erdogan punti apertamente a una dittatura: «Ha sempre voluto una islamizzazione morbida. Cercherà di restare nella Nato e nell’accordo di unione doganale con la Ue. Non diventeremo un Iran sunnita. Il suo obiettivo è un altro: il potere a un uomo solo. Prima ha distrutto i kemalisti, ora i gulenisti. Ma ha un problema, l’esercito. Come lo ricostruirà? Non è ancora finita».

Ieri intanto proprio ciò che resta dei laici kemalisti (il partito Chp) è sceso a Istanbul, in piazza Taksim, per una manifestazione contro il colpo di Stato, autorizzata (e ben vista) dall’avversario Erdogan.

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