Confusione. Mentre incontra gli abitanti di Velke Mezirici, cittadina da 11 mila anime nella regione di Vysocina, il presidente della Repubblica ceca, Milos Zeman, promette che farà «tutto il possibile perché chi è in favore dell’uscita dall’Ue possa avere un referendum e sia in grado di esprimersi». Certo, precisa, lui non è d’accordo con la fuga dall’Europa, eppure le sue parole bastano a dare un nuovo brivido al patto delle dodici stelle che già naviga nel mare dell’insicurezza gonfiato da Brexit e ora agitato anche dal ballottaggio austriaco da rifare. Così è costretto a intervenire da Praga il premier Sobotka, per precisare che non c’è intenzione di indire una consultazione sulla permanenza nell’Unione o nella Nato. Polemica chiusa. Forse.

Il caso esplode nell’esatta ora in cui, a Bratislava, il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, e il premier slovacco, Roberto Fico, stano tenendo una conferenza stampa in cui cercano di ricucire almeno in apparenza i dissidi fra i nuovi e vecchi soci dell’Unione, fra i fautori di una più stretta integrazione e quelli che, se va bene, accetterebbero un poco di manutenzione allo status quo. Dal 23 giugno l’Europa non è più la stessa e il lussemburghese invita a non «aggiungere incertezza all’incertezza». Il voto britannico alimenta il virus della paralisi. Le interferenze sono tali che la stampa tedesca versa piombo per chiedersi se Juncker andrà o no al vertice della Brexit di settembre, come se fosse il problema centrale.

L’Europa è assediata. Dal populismo che avanza, come dall’ondata di voti e consultazioni popolari che affollano il calendario. «Il referendum è diventato per la democrazia quello che la pornografia è per il sesso», prova a scherzare una fonte diplomatica. C’è poco da ridere. Di qui a dodici mesi, salvo svolte serie, l’Ue si ritroverà con le ossa un poco più rotte a ogni spoglio ultimato.

Apre la lista delle incognite il ballottaggio austriaco, vinto di un soffio dai moderati sulla destra radicale, e ora da rifare. Johannes Hahn, viennese e commissario Ue all’allargamento, assicura di non essere preoccupato perché «probabilmente il risultato sarà confermato». I funzionari europei si chiedono se gli effetti della Brexit convinceranno gli elettori a mantenersi sul centrosinistra o inciteranno i più arrabbiati che Londra è un buon esempio. Il rischio è alto. Un paese dell’Eurozona nelle mani di un partito scettico è una contraddizione.

Non poteva capitare in un momento peggiore. Brexit ha scosso il tempio europeo dalle fondamenta. In ottobre si tiene in Ungheria il referendum voluto dal populista-popolare Viktor Orban sulle quote di riallocazione obbligatoria dei rifugiati, indetto per dare uno schiaffo alla Commissione e al Consiglio. Bloccherebbe il piano e l’agenda migranti, per la gioia del quartetto dei Paesi di Visegrad, a partire dallo slovacco-presidente di turno Fico.

Quasi contemporaneamente arriva il referendum sulle riforme italiane, che non è legato a Bruxelles, però rischia di diventare un sondaggio su Matteo Renzi, con le politiche europee destinate a orientare consensi e dissensi. Nel marzo 2017 si vota in Olanda, dove l’antislamico Wilders potrebbe conquistare la maggioranza relativa dei suffragi. Il primo passo dopo il trionfo (improbabile) sarebbe un referendum anti-Ue. Lo stesso discorso porta a maggio e alle presidenziale francesi. Anche qui la cittadina Le Pen vuole far esprimere il popolo su Bruxelles. In autunno, voto insidioso in Germania, con Merkel in pericolo. La combinazione dei peggiori scenari potrebbe mettere democraticamente fuori dalla storia. «Come il sesso con la pornografia», direbbe con facile probabilità di essere contestato il diplomatico europeo che non ama i referendum.

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