Un Paese in ripresa, ma con una crescita ancora «a bassa intensità», che vede i consumi risalire, dove si torna a investire e dove cresce il lavoro, che diventa anche più stabile rispetto al passato, con le imprese che pian piano stanno uscendo dalla crisi (soprattutto quelle più votate all’export). Ma anche un Paese con meno abitanti, perché si fanno sempre meno figli, un poco più in sovrappeso, e che invecchia. E dove il solco fra le varie generazioni si allarga sempre di più. La fotografia che scatta l’Istat, col fiume di numeri del suo Rapporto annuale presentato ieri alla Camera, è un mosaico composto da cinque differenti quadri, cinque diverse fasce generazionali. Si va dalla Generazione della ricostruzione a quella del baby boom, dalla Generazione di transizione a quella del millennio (la più colpita dalla crisi) sino all’ultima, la Generazione delle reti, i giovani di oggi sempre connessi. In pratica cinque squadre che giocano in cinque campionati differenti: i più anziani sono quelli che stanno meglio, quelli che lavorano e godono di maggiori tutele e pensioni migliori; i giovani sono quelli più in difficoltà: non trovano lavoro, vivono sempre più in famiglia (6 su 10 stanno con mamma e papà anche dopo i 30 anni) ed ovviamente non si sposano.

Allarme povertà

Sullo sfondo un problema enorme: l’11,5% delle famiglie vive ancora in situazioni di disagio. In forte aumento soprattutto i nuclei «jobless», in cui nessuno lavora: nel 2015 sono arrivati a quota 2,2 milioni. «Colpa del nostro sistema di protezione sociale - annota il presidente dell’Istat, Giorgio Alleva - che risulta tra i meno efficaci nel proteggere le persone dal rischio di cadere in povertà».

Giovani vs adulti

Tra il 2004 e il 2015, rileva il Rapporto Istat, giovani e adulti presentano dinamiche opposte. Innanzitutto, il peso decrescente dei 15-34enni sul totale degli occupati testimonia il progressivo invecchiamento della forza lavoro. A questo si aggiunge la diversa struttura dell’occupazione: i 55-64enni sono più presenti nei settori tradizionali (agricoltura, pubblica amministrazione, istruzione e sanità), i giovani nei servizi privati. Inoltre, il maggiore investimento in istruzione dei più giovani non trova riscontro nella qualifica del lavoro svolto, tanto che il numero dei sovraistruiti fra i 15-34enni è quasi il triplo di quello degli adulti. E come se non bastasse l’Istat rivela che nemmeno la tanto evocata staffetta generazionale potrebbe invertire il trend. Il confronto tra i 15-34enni occupati da non più di 3 anni al primo lavoro e le persone con più di 54 anni andate in pensione nello stesso periodo, infatti, fa emergere la difficile sostituibilità «posto per posto» di giovani e anziani. Mentre i primi entrano soprattutto nei servizi privati - 319 mila tra commercio, alberghi, ristoranti e servizi alle imprese, a fronte di 130 mila uscite - in altri settori le uscite non sono rimpiazzate dalle entrate (125 mila escono da Pa e scuola e solo 37 mila entrano).

Più occupati e più Neet

Il risultato è che nel 2015 sono stati più di 2,3 milioni i giovani di 15-29 anni non occupati e non in formazione (Neet), di cui 3 su 4 vorrebbero lavorare. L’incidenza sui giovani di 15-29 anni è al 25,7% (+6,4 punti sul 2008) e tocca punte ancor più alte tra gli stranieri (35,4%), al Sud (35,3%) e tra le donne (27,1%), specie se madri (64,9%). Dopo sette anni di aumento ininterrotto il numero dei disoccupati nel 2015 è tornato a scendere toccando l’11,9%, poco sopra quota 3 milioni. Il tasso di occupazione dei giovani si attesta al 39,2% (era al 50,3% nel 2008). Di contro i 50-64enni crescono di 9,2 punti e toccano il 56,3% mettendo a segno la crescita più forte con un trend particolarmente accentuato negli anni della crisi per effetto delle riforme delle pensioni, dell’incremento della popolazione della generazione del baby boom e dell’innalzamento del livello di istruzione.

Futuro grigio per il lavoro

Prospettive? Di qui al 2025 la situazione non cambierà più di tanto: dall’analisi Istat emerge infatti che il tasso di occupazione resterà prossimo a quello del 2010, «a meno che - segnala il Rapporto - non intervengano politiche di sostegno alla domanda interna e un ampliamento della base produttiva».

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