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Parkinson, così insegneremo ai neuroni ad accettare il placebo al posto dei farmaci

Parkinson, così insegneremo ai neuroni ad accettare il placebo al posto dei farmaci
Studio torinese per misurare l’effetto sul talamo. Obiettivo: diminuire le dosi di farmaco nei malati. Durante l’esperimento si sono avuti miglioramenti nei disturbi motori
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Sempre più studiato, il placebo non smette di sorprenderci: è possibile insegnare ai neuroni dei pazienti affetti da malattia di Parkinson a

rispondere al placebo al fine di giungere ad un possibile trattamento per ridurre l'assunzione quotidiana dei farmaci
. Il meccanismo attraverso cui si induce l'effetto placebo, nel quale i neuroni talamici aumentano la loro attività con l'effetto clinico di un'evidente riduzione della rigidità muscolare, è quello del «condizionamento farmacologico, ovvero si sfrutta la traccia mnemonica che viene lasciata dal farmaco somministrato» spiega il professore Fabrizio Benedetti, ordinario di Neurofisiologia e Fisiologia Umana all'Università degli Studi di Torino e all'Istituto Nazionale di Neuroscienze, pioniere degli studi sul placebo e alla guida del team di neuroscienziati torinesi che hanno condotto lo studio. L'effetto elettrofisiologico e clinico compare dando al paziente una soluzione salina dopo una o più iniezioni di apomorfina, farmaco dopaminergico antiparkinsoniano.

Insegnare ai neuroni il placebo

Da tempo si sa che il placebo,

inducendo un rilascio di dopamina nello striato e cambiando l'attività neurale nel talamo e nei nuclei subtalamici
, porta ad un miglioramento dei sintomi motori del Parkinson. Nello studio, apparso sulla rivista The Journal of Physiology, il gruppo torinese ha potuto controllare il meccanismo registrando l'attività dei singoli neuroni (single cell recording) nel talamo di 42 pazienti parkinsoniani nel corso dell'intervento chirurgico di impianto degli elettrodi per la stimolazione cerebrale profonda (DBS). I
pazienti sono stati suddivisi in sei gruppi, sulla base del trattamento somministrato prima dell'operazione
(nessun trattamento, il placebo oppure 2 mg di apomorfina per 1, 2, 3 o 4 giorni).

Proprio la misurazione elettrofisiologica del segnale elettrico nel talamo, durante l'intervento in awake (con paziente sveglio), ha mostrato l'assenza di effetto placebo in chi non aveva mai assunto l'apomorfina e invece un aumento dell'attività talamica in risposta alla soluzione salina, e un

miglioramento dei sintomi motori
, in coloro che erano andati incontro a precondizionamento con il farmaco. L
'ampiezza e la durata dell'effetto sono stati tanto maggiori quanto più numerose erano state le iniezioni di apomorfina
, spiega Benedetti: «Dopo 4 giorni di trattamento con apomorfina a 2mg, l'effetto di miglioramento dei sintomi è durato 48 ore».

Una memoria di breve durata

Le parola chiave è infatti apprendimento. «Affinché l'effetto placebo possa manifestarsi non basta l'aspettativa, ovvero la credenza che funzioni, come si pensava un tempo ma devo avere esperienze che lo confermino», spiega il professore. Infatti,

alla prima somministrazione del placebo i neuroni talamici rispondono pochissimo
. Ma con l'apprendimento associativo anche i non-responders possono diventare responders. La speranza dei ricercatori è di allungare la «memoria» dei neuroni aumentando il numero di somministrazioni per avere un effetto di lungo periodo.

Le auspicabili ricadute cliniche

Il placebo si conferma un fenomeno neurofisiologico complesso e misurabile che coinvolge le aree frontali e quelle subcorticali del cervello. Proprio il gruppo di Benedetti aveva dimostrato nel 2004 in uno studio sui parkinsoniani apparso su Nature che era possibile descrivere la risposta al placebo di singoli neuroni talamici.

E nel caso di altre condizioni, come il

dolore cronico
, ha mostrato che è possibile ridurre le dosi del farmaco sfruttando opportunamente l'effetto placebo, ad esempio ricorrendo ad un protocollo alternato che sfrutti l'apprendimento, con somministrazioni combinate del tipo farmaco-farmaco-placebo e di nuovo farmaco-farmaco-placebo.

«Già negli Anni 90 e 2000 abbiamo dimostrato che questo tipo di protocollo permette una riduzione della somministrazione di antidolorifici narcotici» spiega il professore, per il quale ora l'obiettivo è quello di giungere agli stessi risultati anche con il Parkinson. Per quanto, ammette, «la reale applicazione clinica è ancora da dimostrare.»

La vera sfida sta nel tentare di andare oltre le 24 e 48 ore
– la durata dell'effetto placebo – per giungere ad un effetto più duraturo.

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