Il giornalismo che cambia

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Leggevo, poco tempo fa, che anche e persino i grandi tabloid americani hanno considerevoli difficoltà a reggere la concorrenza dei social network.
L’incalzare della controinformazione popular, il disvelamento di verità da strada che prima era impensabile potessero salire agli onori della cronaca e la libera iniziativa non professionale, rendono il giornalismo una delle professioni più in crisi degli ultimi anni.
Sembra che la cittadinanza digitale abbia rotto gli argini degli schemi autoreferenziali della notizia– e questo è un bene – interrompendo il flusso comunicativo ‘autorevole’, frammentando in una miriade di verità, la realtà di ogni giorno. Cosicchè diventa difficile mantenere un punto di vista affidabile e ‘accreditato’.
Niente di più falso, a mio parere.
Partiamo innanzitutto da un dato di fatto: ciò che regge ancora, dal punto di vista giornalistico, è l’affidabilità di alcuni network informativi come la BBC, il New York Times, il Financial Times, e più alivello nazionale: la nostra Rai o, a livello di carta stampata, la Repubblica e il Corriere, ma anche il Tgcom o Sky news, – per citare le più ‘accreditate’ testate e network informativi – che pure, in qualità di primi divulgatori di notizie, paiono sempre più inquinati dalle logiche economiche e di potere.
Magari qualcuno mi obietterà che questi network e testate in realtà sono sempre stati inquinati in sì fatto modo.
In realtà le cose non stanno proprio così.
La critica perde un punto di vista importante: il contesto storico.
Appena 30 anni fa la realtà attuale appariva uno scenario fantascientifico. E ciò che oggi a noi potrebbe sembrare riprovevole, un tempo era prassi, sistema, equilibrio. Ecco, quindi, che con la digitalizzazione già qualcosa è cambiato, in termini di trasparenza e democratizzazione dei processi sociali e civili. Certo non siamo al pieno convincimento ma molti passi in avanti sono stati fatti.
L’inquinamento attuale della veicolazione delle notizie è qualcosa di molto più superficiale e visibile di quanto non lo fosse un tempo. Un’emersione importante.
L’affidabilità degli autorevoli diffusori di notizie oggi tuttavia appare di nuovo sotto attacco per il rinnovato tentativo di imbrigliarne professionalità ed esperienza al servizio della nuova forma di connessione sociale.
Al di là del fatto che si può essere naturalmente portati per una professione, a causa dell’ambiente in cui si nasce o del proprio temperamento, giornalisti non si nasce ma si diventa. E’ l’esperienza che fa il monaco Ecco perchè secondo me delle professioni non dovrebbero essere aboliti gli ordini.
La televisione ed i grossi editori restano il punto fermo ed esperienziale di formazione ed informazione del pubblico. Ma oltre questo punto fermo per me non esiste altro che una società collaborativa, oggi, sempre più interconnessa, con cui anche le ‘grandi esperienze’ dovrebbero fare i conti per battagliare fianco a fianco con la società civile per una sempre maggiore trasparenza ed affermazione dei diritti diffusi e da diffondere. In questo la digitalizzazione è il perno principale.

E considerando che la crisi economica impedisce persiono ai grandi network informativi ed ai più consolidati quotidiani di essere presenti in ogni dove, considerando che la globalizzazione ha allargato confini della notizia, è chiaro che la capacità di concorrenza dipende molto dalle capacità di utilizzo le fonti.

Il punto è, al contrario, che il giornalismo ha finalmente imboccato una strada schematicamente diversa dalla politica, cui si è sempre accompagnato. Ma siamo ancora all’imbocco del raccordo.

Se n’è parlato presso la Nuova Aula dei Gruppi parlamentari in Via Campo di Marzio – Roma – mercoledì scorso 20 Maggio 2015, al convegno “L’Italia cambia. Cambia il giornalismo?” organizzato dall’Ufficio Stampa della Camera dei deputati in collaborazione con l’Associazione stampa parlamentare e l’Ordine dei giornalisti del Lazio.

L’evento si è articolato in quattro panel: “La sfida del giornale che cambia col digitale”; “Ordine dei giornalisti, cambiare o morire”; “Editori e giornalisti italiani, come uscire dalla crisi”; “Noi giornalisti riusciremo ad arrivare alla pensione?”.

Mario Calabresi ha evidenziato propio il punto sulla differenza tra l’antico modo di fare televisione e giornalismo stampato e l’attuale.
Siamo bombardati dalle informazioni ed in questo la digitalizzazione è stata grande portatore dell’aumento esponenziale del ‘notiziabile’ ma è stata anche esemplare per la democratizzazione dei processi. Siamo al quinto potere: il 2.0

E come ha sottolineato Marco Damilano oggi la flessibilità diventa lo strumento del potere 2.0. e la voce di questo nuovo potere è quella che si leva dal popolo per urlare: ‘il re è nudo’. Siamo all’autenticità del reale. Al suo essere ‘servizio sociale’.

Ad esempio sono anni che la Rai si mantiene su quest’onda, tra ombre e luci. E si avvia a diventare sempre più luci che ombre, perchè sempre più ‘servizio pubblico’ per l’appunto, sempre più Tv per il pubblico più che di massa indefinita.

Il giornalismo se saprà tenere conto della rivoluzione digitale potrà diventare sempre più autentico ‘servizio informativo’, si suppone. Una ‘disintermediazione’ dal potere politico ma una ‘intermediazione’ con il pubblico.
Ognuno sarà il brand di se stesso ha detto Marco Damilano rendendo la vita ancora più difficile ai persuasori occulti in virtù di uno spazio bypassabile, per un potere che non esiste più, inutile essere nostalgici.

La credibilità è un’antica regola giornalistica, ha affermato con forza Marco Damilano, con la caratteristica dell’immediatezza e dell’umiltà dell’informazione, perchè tutto è un frammento, un frame, che si colloca in un film ed in quale fotogramma del film è compito del giornalista stabilirlo.
In pratica la caratteristica del giornalismo professionale del futuro sarà la capacità di ricostruire un contesto. Il potere diventerà sempre più irritante e scostante, e varrà solo un’idea comunicata per un tramite discreto e umanamente rispettoso (Aldo Moro)

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La cittadinanza digitale non è più un’app del passaggio storico. La cittadinanza digitale fa parte del neo umanesimo cui non si può più sottendere e ciò che non sono riuscite a modificare le rivoluzioni del passato potrebbe riuscire alla ‘rivoluzione digitale’

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