«Non abbiamo risolto tutti i problemi, ma il Paese è sicuramente migliorato». C’è entusiasmo nella base italiana di Herat, in Afghanistan.

Con il passaggio di consegne (avvenuto sabato mattina alla presenza del capo di Stato maggiore Luigi Binelli Mantelli) dalla brigata Sassari alla brigata bersaglieri Garibaldi, la missione Isaf (iniziata dall’Alleanza nel 2002 a Kabul ed estesa poi a tutto il Paese) entra nella sua fase finale.

I risultati, soprattutto nelle province occidentali di Herat, Farah, Ghor e Badghis (affidate dal 2006 al comando del nostro contingente) sono positivi. Il successo delle ultime elezioni (con una percentuale di votanti oltre le attese e pochi attentati) dimostra che gli afghani cominciano a fidarsi delle loro istituzioni e che la minaccia talebana è sempre più debole.

In dodici anni il Paese è passato da 18 mila a 45 mila chilometri di strade asfaltate, da mille a 14 mila scuole, e la popolazione con accesso alle cure sanitarie ora è all’85% (nel 2001 era all’8). «Insieme agli altri uomini della coalizione abbiamo fatto un grande lavoro, ma non è finita», raccontano i soldati durante la cerimonia del Toa (Transfer of authority). Insomma, per completare la transizione forse ci vuole altro tempo. «Per non rischiare di commettere gli stessi errori dell’Iraq», dice qualcuno sottovoce.

A quattro mesi dal termine ufficiale della missione Isaf (il mandato Onu scade il 31 dicembre) ancora non è chiaro quale sarà l’impegno delle forze internazionali per i prossimi anni. Dopo il passo indietro di Karzai (che nei mesi scorsi si è rifiutato di firmare l’accordo con gli Stati Uniti che garantirebbe la presenza delle truppe Usa fino alle fine del 2016), ora tocca al nuovo presidente. Ma i due candidati al ballottaggio, Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani, continuano a litigare e a quasi tre mesi dal voto ancora non si conoscono i risultati. «Le soluzioni politiche richiedono più tempo di quelle militari», spiega l’ambasciatore italiano a Kabul Luciano Pezzotti.

In ogni caso sia Abdullah sia Ghani avrebbero chiesto alla coalizione di restare (l’intesa con gli Usa spianerebbe la strada a una nuova missione Nato, «Resolute Support», che vedrebbe l’Alleanza impegnata nel programma di assistenza delle forze di sicurezza afghane per altri due anni). L’Italia è pronta. «Se gli afghani ci hanno chiesto di restare – dice ancora Pezzotti - vuol dire che il lavoro non lo considerano finito e che hanno ancora bisogno di noi. Ma sarà il Parlamento a decidere».

Quindi i nostri soldati potrebbero continuare a combattere? «Assolutamente no – spiega il generale Scardino (brigata Garibaldi) che ha appena assunto il comando dal generale Scopigno -. La sicurezza ora la gestiscono gli afghani, è stato così anche durante le elezioni. Noi non facciamo operazioni “combat” da almeno un mese. Si tratterà solo di addestrare lo staff locale, individuare eventuali carenze e intervenire per rendere le forze di sicurezza afghane interamente autosufficienti». E quanti uomini dovrebbero restare? «Non lo sappiamo di preciso. La decisione spetta al Parlamento, ma si parla di circa 800 soldati».

In ogni caso l’accordo con Kabul ancora non c’è (secondo i più ottimisti la fumata bianca potrebbe arrivare nelle prossime settimane) e così il contingente tricolore deve pensare al ritiro. I numeri della missione si sono già ridotti: ci sono circa 2000 soldati (erano quasi il doppio un anno fa), tutte le basi minori sono state trasferite agli afghani e 11 mila tonnellate tra mezzi e container sono state rimpatriate. «Stiamo pianificando il rientro degli oltre 5 mila metri lineari di materiale rimanente», spiega ancora Scardino.

Il rimpatrio di materiali avviene attraverso una rotta che prevede una prima tratta aerea Herat-Al Bateen (la base negli Emirati Arabi Uniti da cui partono anche gli aiuti diretti a Erbil, in Iraq), seguita da una seconda tratta navale che parte da Dubai e raggiunge i porti italiani. «Attualmente – dice Scardino - si sta lavorando su due piani paralleli, definiti Itaca 2 e Super Itaca. Itaca 2 verrà portato a termine qualora parta l’operazione Nato “Resolute support” e l’Italia mantenga a Herat l’ipotizzato contingente di circa 800 uomini. In questo caso il materiale da rimpatriare sarà meno». Ma bisogna considerare anche l’ipotesi che la leadership afghana decida di non firmare gli accordi con Usa e Nato e che le truppe dell’Alleanza debbano lasciare il Paese entro fine anno: allora entrerebbe in scena il piano Super Itaca. Un ulteriore complicazione a quella che è già stata definita come la più complessa operazione logistica delle Forze Armate italiane dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.

Ma a Herat per ora è tempo di celebrazioni. Dopo sei mesi i «diavoli rossi» (così venivano chiamati per la loro tenacia gli uomini della brigata Sassari durante la Prima Guerra Mondiale) tornano a casa lasciando il posto ai bersaglieri della Garibaldi. «Abbiamo fatto del nostro meglio, soprattutto per sensibilizzare la popolazione», dicono prima di salire a bordo del Kc che li riporterà in Sardegna. Anche l’ammiraglio Binelli Mantelli è soddisfatto: «I fatti parlano da soli. Avete visto la credibilità di cui godono i nostri soldati a Herat e l’ottimo lavoro che svolge l’aeronautica di stanza a El Badeen». Ma le sfide non sono finite.

L’attenzione ora è rivolta alla Libia («una priorità per l’Italia», dicono fonti diplomatiche) e all’Iraq. Intanto la cerimonia del Toa finisce: un drone si alza in volo. «Giro di ricognizione», spiegano i soldati. Perché la guerriglia talebana, seppur ampiamente ridimensionata, è ancora lì, nascosta nelle montagne afghane.

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